Contenzioso tributario – Costituzione del ricorrente – Decorrenza del termine – Notifica effettuata a mezzo servizio postale.
abstract: Sentenza Cassazione 15.5.2008 n. 12185
Pronuncia importantissima perché si pone in contrasto con altre pronunce della Suprema Corte in tema di decorrenza dei termini per la costituzione in giudizio allorché la notifica venga effettuata a mezzo del servizio postale.
Segnalato da Franco Ionadi Ricerca giuridica Cassazione Sentenze Contenzioso Costituzione Notifica Notificazione Termine Termini Decorrenza Sottoscrizione Firma Originale Copia Nullità Inammissibilità
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1) In tema di costituzione nel giudizio tributario, il termine di trenta giorni previsto, a pena di inammissibilità, per il deposito del ricorso nella segreteria della commissione tributaria decorre, in caso di notifica effettuata a mezzo del servizio postale, non già dalla data di spedizione, ma da quella di avvenuto ricevimento da parte del destinatario.
2) In caso di notifica del ricorso a mezzo posta o a mezzo consegna all’ufficio finanziario, non è configurabile l’inammissibilità dell’impugnazione nel caso di mancanza, nella copia notificata dell’atto, della sottoscrizione dell’autore, dovendo essa essere ritenuta presente “per relationem”, attraverso il rinvio implicito all’originale depositato presso la segreteria della commissione, e ben potendo eventuali contestazioni essere risolte dal Giudice tributario mediante l’ordine di esibizione dell’originale del ricorso, ai sensi dell’art. 22, comma 5.
Testo sentenza
La C.T.P. di Roma accoglieva il ricorso proposto dalla XXX. avverso avviso di rettifica IVA per l’anno 1995.La C.T.R. Lazio accoglieva l’appello proposto dall’Ufficio Roma 4 dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado, innanzitutto rilevando che doveva ritenersi legittima la motivazione di un avviso di rettifica con rinvio per relationem al p.v.c. della Guardia di Finanza.Nel merito, i Giudici d’appello affermavano: che dagli atti risultava che la società contribuente aveva omesso la fatturazione di operazioni di acquisto; che le fatture, emesse sia da fornitori nazionali che esteri, indicavano altre società nazionali, e non la contribuente, la quale perciò aveva detratto costi indetraibili;che la contribuente risultava inoltre aver emesso fatture nei confronti di se stessa (per merce destinata ad un proprio punto vendita), così dichiarando due volte i costi;
che da un controllo incrociato era emerso che la s.r.l. E., possedendo tutte le caratteristiche della c.d. “C.”, si era interposta fittiziamente tra i cedenti comunitari e la società contribuente, effettivo cessionario nazionale, al fine di porre in essere un meccanismo di evasione sugli scambi comunitari.Rilevavano altresì i Giudici d’appello che la contribuente in primo grado e in appello non aveva mai contraddetto le risultanze del p.v.c, del quale era a conoscenza per esserla stato consegnato dall’Ufficio e che legittimamente il suddetto p.v.c. era stato prodotto in appello ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58 restando ininfluente che non fosse stato prodotto in primo grado, potendo la commissione acquisirlo cit. D.Lgs., ex art. 7. Aggiungevano infine i Giudici della C.T.R. che l’appello dell’Ufficio doveva ritenersi tempestivo con riguardo al termine lungo per impugnare, senza che potesse influire in senso contrario il provvedimento di sgravio emesso dal medesimo Ufficio.Avverso questa sentenza la società propone ricorso per cassazione successivamente illustrato da memoria; resistono con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate.Motivi della decisione
Col primo motivo, deducendo omessa pronunzia ex art. 112 c.p.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, la ricorrente rileva che i Giudici di appello avrebbero omesso di pronunciarsi in ordine alla dedotta intempestività della proposizione dell’appello e della costituzione dell’appellante.Col secondo motivo, deducendo omessa e insufficiente motivazione, la ricorrente rileva che i Giudici d’appello avrebbero omesso di motivare adeguatamente in ordine alle eccezioni concernenti all’intempestività della costituzione dell’appellante, nonché l’intempestività e irritualità della proposizione del gravame e della relativa notifica.In particolare, i Giudici d’appello non avrebbero motivato (o lo avrebbero fatto in maniera insufficiente): sulla circostanza che la costituzione dell’appellante era avvenuta oltre il termine previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22; sulla circostanza che nella specie non era applicabile il termine lungo bensì il termine breve per impugnare, essendo stata la sentenza di primo grado notificata all’Ufficio il 23 maggio 2001; infine, sulla circostanza della dedotta acquiescenza prestata dall’Ufficio alla sentenza di primo grado, in relazione al disposto provvedimento di sgravio.Col terzo motivo, deducendo violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 21 e 51, la ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto la tempestività dell’impugnazione nonostante la notificazione della sentenza impugnata fosse intervenuta, unitamente all’istanza di sgravio, il 23 maggio 2001, e quindi decorresse da tale data il termine breve per impugnare.Col quarto motivo, deducendo violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 21 e 53, la ricorrente rileva che, dovendosi la notifica dell’atto d’appello ritenere intervenuta il giorno della spedizione, nella specie non risultava rispettato il termine per il deposito del ricorso notificato presso la segreteria della commissione.Col quinto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16, 17, 31, nonché artt. 136, 137 e 149 c.p.c., la ricorrente rileva che: l’atto d’appello non era stato notificato presso la sede della società contribuente, bensì al difensore, presso il quale non era stata effettuata elezione di domicilio; che la copia dell’atto d’appello notificata al patrocinatore recava l’autorizzazione ma non la dichiarazione di conformità né la sottoscrizione autografa dell’estensore dell’atto; che la segreteria della C.T.R. non aveva effettuato alla contribuente la comunicazione dell’avviso di trattazione per l’udienza del 29.9.92, udienza alla quale nessuno aveva partecipato in sua difesa. Col sesto motivo, deducendo violazione dell’art. 329 c.p.c., la ricorrente rileva che i Giudici d’appello avrebbero dovuto dichiarare l’inammissibilità dell’impugnazione dell’Ufficio per avere quest’ultimo disposto, in data 26 giugno 2001, lo sgravio, espressamente motivandolo con l’adempimento della decisione di primo grado e senza alcuna riserva di gravame.Col settimo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, la ricorrente rileva che la norma citata consente la produzione di documenti “nuovi”, non di documenti che, come il p.v.c., potevano essere prodotti già in primo grado, perché diversamente opinando si violerebbe il principio del doppio grado di giudizio, impedendo alla parte di spiegare le sue difese. Con l’ottavo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 56, e D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 51 e 52, e L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 1, nonché L. n. 241 del 1990, art. 3, la ricorrente affermava che i Giudici d’appello avrebbero dovuto confermare la sentenza di primo grado, che aveva ritenuto il difetto di motivazione dell’atto impositivo, in quanto contenente un rinvio per relationem al p.v.c. della Guardia di Finanza. Inoltre, secondo la ricorrente, le segnalazioni della Guardia di Finanza non costituiscono prova dei fatti presunti in riferimento, avendo nella specie la G. di F. recepito quanto emerso da informazioni di fonte imprecisata, senza indicare il luogo di reperimento dell’incartamento consultato, senza formulare alcun rilievo critico e in definitiva senza fornire elementi probatori certi e inconfutabili della pretesa dell’Ufficio.Aggiunge la contribuente che l’Ufficio non avrebbe dimostrato l’effettiva conoscenza del verbale da parte della contribuente, posto che la motivazione per relationem veniva riferita anche ad altri accertamenti nei confronti di terzi, perciò non conoscibili dalla contribuente.Col nono motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51 e 54, e art. 2729 c.c., la ricorrente rileva che i Giudici d’appello avrebbero dovuto confermare la sentenza di primo grado, posto che le asserite presunzioni poste dall’Ufficio a fondamento della pretesa fiscale, a sua volta tratte dal p.v.c. mai prodotto, non rivestono le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza richieste dal citato art. 54, né risulta affermata dall’Officio o dai Giudici d’appello l’inattendibilità della contabilità della contribuente, la quale, come risultante dal p.v.c, aveva documentato ogni voce della propria dichiarazione IVA.Secondo la ricorrente, i giudici d’appello avrebbero ammesso presunzioni derivanti da altre presunzioni, con particolare riferimento a quanto emerso dal c.d. controllo incrociato, senza contare che le c.d. “caratteristiche della cartiera” riferite alla società E. non sarebbero opponibili alla contribuente, non essendo state estese ad essa le relative contestazioni.Col decimo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 c.c., la ricorrente rileva che i Giudici d’appello non avevano considerato che gravava sull’amministrazione l’onere di provare la propria pretesa e che nella specie essa non lo aveva assolto, non avendo neppure prodotto in giudizio il p.v.c. al quale si riferiva per relationem l’avviso opposto.Aggiunge la ricorrente che in ogni caso il p.v.c. non costituisce prova dei presunti fatti in riferimento, che le presunzioni in esso contenute mancherebbero dei requisiti di gravità, precisione e concordanza e infine che non sarebbero stati forniti elementi probatori certi e inconfutabili idonei a suffragare la pretesa fiscale.Con l’undicesimo motivo, deducendo “correttezza della sentenza impugnata”, la ricorrente rileva che correttamente la sentenza di primo grado aveva motivato l’accoglimento del ricorso col mancato assolvimento dell’onere probatorio da parte dell’Ufficio, laddove la C.T.R., in maniera illogica ed irrituale, avrebbe fatto propri i valori accertati e rettificati dall’Ufficio senza espressamente motivare in ordine all’avvenuto assolvimento da parte del medesimo dell’onere probatorio relativo alla sussistenza degli elementi atti a giustificare il quantum accertato. Le esposte censure sono in parte infondate e in parte inammissibili.In particolare, con riguardo ai motivi primo, secondo, terzo, quarto e sesto (coi quali la ricorrente censura sotto diversi profili - omessa pronuncia, omessa e/o insufficiente motivazione, violazione di legge - la sentenza impugnata per non aver dichiarato l’inammissibilità dell’appello, nonostante l’intempestività dello stesso e della costituzione dell’appellante nonché l’intervenuta acquiescenza alla sentenza di primo grado) giova rilevare, prescindendo da ogni altra considerazione, che la pronuncia nel merito dell’appello presuppone la ritenuta ammissibilità dello stesso - quindi una implicita pronuncia in tal senso - e che quando, come nella specie, viene denunciato un difetto di motivazione comportante la soluzione di una questione di diritto, il Giudice di legittimità - investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione (manchevole o inesatta) della sentenza impugnata è chiamato a valutare se la soluzione adottata dal Giudice del merito sia oggettivamente conforme alla legge, piuttosto che a sindacarne la motivazione, con la conseguenza che l’eventuale mancanza o erroneità di questa deve ritenersi del tutto irrilevante, quando il Giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (v. tra le altre Cass. n. 15764 del 2004 e n. 12753 del 1999).Tanto premesso, è da rilevare che nella specie l’appello deve ritenersi tempestivo in quanto rispettoso del termine lungo per impugnare, non essendo applicabile il termine breve in assenza di valida notifica della sentenza impugnata.Giova in proposito evidenziare che dalla lettura degli atti, consentita a questo Giudice in relazione alla deduzione di error in procedendo, risulta infatti soltanto che la contribuente allegò all’istanza di sgravio il dispositivo della sentenza di primo grado, ma non risulta affatto che tale sentenza fu notificata integralmente e a mezzo di ufficiale giudiziario, come invece richiesto dalla univoca giurisprudenza di questo Giudice di legittimità, secondo la quale “nell’attuale disciplina del processo tributario, ai fini della decorrenza del termine breve per impugnare la sentenza della commissione tributaria, di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 51, comma 1, occorre procedere secondo lo schema prefigurato dal medesimo decreto, art. 38, comma 2, ossia è necessaria la notificazione della sentenza ad istanza di parte (e cioè, della parte personalmente o del suo procuratore in giudizio) a norma dell’art. 137 c.p.c., e ss., vale a dire eseguita dall’ufficiale giudiziario, dovendosi evidenziare che la formulazione dell’art. 38 comma 2, consente di escludere immediatamente la possibilità di ricorrere, per la notificazione della sentenza, alle forme previste nel precedente art. 16, commi 3 e 4, proprio perché esse costituiscono eccezioni alla regola generale di cui allo stesso articolo, comma 2, riprodotta tal quale nell’art. 38” (v. tra le altre Cass. n. 6166 del 2001 e n. 7306 del 2005).Deve ritenersi altresì tempestiva la costituzione dell’appellato.In proposito, il collegio non ignora che con sentenza n. 20262 del 2004questo Giudice di legittimità ha avuto modo di affermare che il deposito, nella segreteria della commissione tributaria adita, del ricorso notificato per posta deve essere effettuato entro trenta giorni dalla spedizione postale del documento incorporante il ricorso, e non dalla sua ricezione da parte del destinatario, tuttavia questo orientamento, peraltro non consolidato, non appare in armonia con la considerazione (presupposta, benché raramente esplicitata, dalla gran parte della giurisprudenza in materia di notificazioni), secondo il quale la notificazione nel sistema processuale, comunque effettuata (e perciò sia a mezzo del servizio postale che a mezzo dell’ufficiale giudiziario), si perfeziona sempre nel momento in cui l’atto da notificare è ricevuto, essendo indiscutibile che quando nel processo si richiede, per la produzione di determinati effetti, la conoscenza di un atto da parte di uno o più soggetti, occorre, perché gli effetti si producano, che la prevista conoscenza intervenga, e sia una conoscenza “effettiva” (non convenzionale), sia pure nella sua espressione “legale”, ossia quella che si produce all’esito del procedimento del “notum facere”, appositamente preordinato per “costituire” in tempi brevi (e comunque prevedibili) la suddetta conoscenza e la prova certa di essa, nonché del momento in cui è intervenuta.Tanto premesso, è da rilevare che il termine previsto per la costituzione del ricorrente nel procedimento de quo decorre, a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, dalla proposizione del ricorso; che, ai sensi del cit. D.Lgs., art. 20, il ricorso è proposto mediante notifica; che, in caso di notifica a mezzo posta, “s’intende” proposto al momento della spedizione; infine che, a norma del cit. D.Lgs. art. 16, u.c., le notificazioni a mezzo del servizio postale “si considerano” effettuate nella data di spedizione, ma i termini che (come quello previsto per la costituzione dell’appellante) hanno inizio dalla notificazione decorrono (pur sempre) dalla data in cui l’atto è ricevuto (e non, come ritiene il ricorrente, dalla data in cui l’atto è stato spedito).Dalla lettura sistematica delle disposizioni sopra riportate, emerge che (evidentemente per evitare che eventuali disservizi postali ridondino a danno del notificante) si è disposto, in virtù di un’astrazione convenzionale, che la notificazione a mezzo del servizio postale “si considera effettuata” al momento della spedizione e non a quello del ricevimento.Il tenore delle espressioni utilizzate dal legislatore non lascia infatti dubbi sul fatto che si tratti di una “fictio” avente una specifica funzione, come tale di carattere eccezionale, perciò non estensibile in via analogica e non invocabile laddove non si riscontri la funzione che ne ha determinato la genesi, posto che nell’art. 16 citato non si afferma che la notificazione si perfeziona al momento della spedizione, bensì che essa “si considera effettuata” in tale momento e nell’art. 20 citato non si afferma che il ricorso è proposto al momento della spedizione, bensì che esso “s’intende proposto” in tale momento.Pertanto, a meno di non voler determinare, senza una effettiva ragione, l’aggravamento del carico di astrazione gravante sul sistema, occorre interpretare le norme in esame nel senso che la “fictio” si estenda nell’ambito strettamente necessario all’assolvimento della funzione per cui è sorta, e perciò nel senso che la notificazione a mezzo del servizio postale “si considera effettuata” al momento della spedizione con riguardo ai termini entro i quali il perfezionamento della notificazione stessa deve intervenire - nel qual caso un eventuale disservizio postale potrebbe comportare per il notificante una decadenza incolpevole, mentre i termini per i quali (come nella specie) il perfezionamento della notificazione (ivi compresa quella a mezzo del servizio postale) rappresenta il momento iniziale (e rispetto ai quali una notificazione che, in virtù di una “fictio” convenzionale, si consideri effettuata in un momento anteriore a quello dell’effettivo ricevimento dell’atto rappresenterebbe invece una ingiustificata riduzione del termine previsto) decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto, come peraltro espressamente disposto dal citato art. 16, comma 5, con una previsione di portata generale, che nessuna espressa disposizione derogatoria autorizza a ritenere inapplicabile alle ipotesi di notificazione a mezzo del servizio postale.Né in contrario rileva che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 1, prevede modalità di deposito (copia del ricorso e fotocopia della ricevuta di spedizione della raccomandata postale) apparentemente presupponenti solo la spedizione del ricorso, essendo evidentemente tali modalità intese a favorire (salvo un eventuale, successivo riscontro della tempestività della costituzione) il deposito del ricorso subito dopo la spedizione del medesimo senza attendere il perfezionamento del procedimento di notificazione, atteso peraltro che, per un verso, la costituzione potrebbe ritenersi tempestiva anche senza attendere il suddetto perfezionamento tutte le volte in cui, già con riguardo alla spedizione, si riscontrasse il rispetto del termine previsto dal citato art. 22, e che, per altro verso, in ogni caso il ricorrente dovrebbe sempre fornire la prova dell’effettivo perfezionamento della notificazione ai fini della verifica della corretta instaurazione del contraddittorio.È inoltre da escludersi che nella specie sia intervenuta acquiescenza, posto che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell’impugnazione a norma dell’art. 329 c.p.c., sussiste qualora l’interessato abbia posto in essere atti dai quali sia possibile desumere, in maniera precisa e univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, cioè quando gli atti stessi siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell’impugnazione, ipotesi che non può ritenersi sussistente quando la parte abbia, come nella specie, agito in ottemperanza ad una disposizione di legge - D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, comma 2, (v. in tal senso, tra le altre, Cass. n. 23379 del 2007 e n. 18187 del 2007).Con riguardo al quinto motivo di ricorso, è da rilevare che dalla lettura degli atti (consentita in relazione alla deduzione di error in procedendo) risulta che alla contribuente fu effettuata dalla segreteria della C.T.R. la comunicazione dell’avviso di trattazione in udienza.Per quanto concerne la notificazione dell’appello, asseritamente effettuata non presso la sede della contribuente ma presso il difensore - senza che ivi fosse stato eletto domicilio, giova rilevare che, secondo la pacifica giurisprudenza di questo Giudice di legittimità, non comporta inesistenza, ma solo nullità della notifica, la consegna dell’atto in luogo diverso e/ a persona diversa da quella stabilita dalla legge, ma che (come nella specie) abbia tuttavia qualche nesso o riferimento con il destinatario della notificazione; in simili ipotesi, quindi, la notificazione è suscettibile di sanatoria mediante rinnovazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c., (v. tra le altre Cass. n. 11963 del 1995 e n. 6974 del 1995), adempimento nella specie non necessario, dal momento che l’appellata risulta essersi regolarmente costituita in appello esplicando le proprie difese e così consentendo all’atto di raggiungere il proprio scopo (v. Cass. n. 5662 del 1997; n. 13094 del 1997; n. 13557 del 2001; n. 9892 del 2005).
Per quanto concerne la mancanza, nella copia dell’appello notificata al difensore, della dichiarazione di conformità e della sottoscrizione autografa dell’estensore, giova innanzitutto rilevare che l’eventuale mancanza della attestazione di conformità non comporta alcuna sanzione processuale, atteso che l’inammissibilità prevista dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 3, ultima parte, non discende dalla mancata attestazione di conformità bensì dalla sussistenza di una effettiva difformità tra l’atto depositato e quello notificato (v. Cass. n. 17180 del 2004).È inoltre da aggiungere che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, il ricorso introduttivo del giudizio (tanto di primo grado quanto d’appello) dinanzi alle commissioni tributarie, nella disciplina del D.Lgs. n. 546 del 1992, ove direttamente proposto per mezzo del servizio postale o con consegna all’ufficio finanziario, è inammissibile tutte le volte in cui manchi, nella copia depositata con la costituzione in giudizio, la sottoscrizione dell’autore dell’atto (e cioè della parte ovvero del suo difensore), mentre non è configurabile l’inammissibilità dell’impugnazione nel caso di mancanza, nella copia notificata dell’atto, della sottoscrizione dell’autore, dovendo essa essere ritenuta presente “per relationem”, attraverso il rinvio implicito all’originale depositato presso la segreteria della commissione, e ben potendo eventuali contestazioni essere risolte dal Giudice tributario mediante l’ordine di esibizione dell’originale del ricorso, ai sensi dell’art. 22, comma 5, (v. cass. n. 4051 del 2001 e n. 6391 del 2006).Con riguardo al settimo motivo, è sufficiente rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo Giudice di legittimità, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, fa salva la facoltà delle parti di produrre in appello nuovi documenti indipendentemente dalla impossibilità dell’interessato di produrli in prima istanza per causa a lui non imputabile, requisito, quest’ultimo, previsto dall’art. 345 c.p.c., u.c., (come sostituito dalla L. n. 535 del 1990, art. 52), ma non dal citato art. 58, con la conseguenza che costituisce erronea applicazione della norma in parola l’affermazione secondo cui la produzione documentale nel giudizio d’appello risulta illegittima ove non sia stata provata l’impossibilità incolpevole di versarla agli atti del giudizio di primo grado (v. tra le altre Cass. n. 2027 del 2003, n. 16016 del 2005, n. 1545 del 2007).La censura espressa nell’ottavo motivo, concernente il difetto di motivazione dell’avviso impugnato, è inammissibile per difetto di autosufficienza, posto che, secondo la giurisprudenza di questo Giudice di legittimità, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento - il quale non è atto processuale, bensì amministrativo, la cui motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile requisito di legittimità dell’atto stesso, è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto atto che si assumono erroneamente interpretati (o pretermessi) dal Giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio sulla suddetta congruità esclusivamente in base al ricorso medesimo (v. tra le altre Cass. n. 15867 del 2004).Con riguardo al nono motivo, è da rilevare che, pur denunciando violazione di legge per aver i Giudici d’appello ritenuto la sussistenza dei presupposti presuntivi di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51 e 54, nonché art. 2729 c.c., in realtà la ricorrente propone innanzitutto un vizio di motivazione e, formulando una censura generica e sfornita del requisito dell’autosufficienza, tende inammissibilmente ad ottenere da questo giudice di legittimità una rinnovazione del giudizio in fatto operato dai Giudici di merito.In particolare, la ricorrente afferma: che le presunzioni desunte dal verbale di accertamento non rivestono le caratteristiche di gravità, precisione e concordanza imposte dall’art. 54 cit.; che dal verbale della G. di F. risulterebbe che la contribuente aveva documentato ogni voce della propria dichiarazione IVA; che con riguardo al riferimento della sentenza ad un controllo incrociato, l’atto impositivo risultava motivato con riguardo ad una doppia presunzione e ad una doppia relazione; infine che le “caratteristiche della cartiera” riferiti alla società E., non erano state contestate alla contribuente. Le predette affermazioni sono tuttavia sfornite di riscontro, non essendo stati riportati in ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, i passi del verbale della G. di F. dai quali esse emergerebbero.Con riguardo al decimo e all’undicesimo motivo (coi quali la ricorrente denunzia violazione dell’art. 2697 c.c., deducendo che l’Amministrazione non avrebbe assolto all’onere probatorio su di essa gravante sia perché non aveva prodotto il p.v.c. della G. di F., sia perché dalle segnalazioni della G. di F. non sarebbero emersi elementi probatori certi e inconfutabili idonei a supportare la pretesa fiscale) è innanzitutto da rilevare che nella specie, alla stregua di quanto sopra esposto, il p.v.c. risulta legittimamente prodotto in appello D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 58, e che pertanto di esso hanno correttamente tenuto conto i Giudici d’appello. È inoltre da rilevare che, a differenza di quanto sembra suggerire la ricorrente, i suddetti Giudici non hanno sostenuto che nella specie l’onere probatorio in ordine alla pretesa fiscale non gravava sull’amministrazione, ma hanno affermato, valutando il materiale probatorio in atti, che l’amministrazione aveva assolto al proprio onere probatorio. Non esiste, pertanto, la denunciata violazione del principio dell’onere della prova, e con la censura in esame in realtà la ricorrente persegue ancora inammissibilmente l’intento di ottenere da questo giudice di legittimità una rivalutazione del materiale probatorio, senza peraltro neppure formulare la censura sotto il profilo motivazionale e senza corredarla della specificità e dell’autosufficienza indispensabili a farne ritenere l’ammissibilità.Il ricorso deve essere pertanto rigettato.Le spese seguono la soccombenza.P.Q.M. - Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 12.100,00, di cui Euro 12.000,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.
2008-07-25 Segnalato da Franco Ionadi Ricerca giuridica Cassazione Sentenze Contenzioso Costituzione Notifica Notificazione Termine Termini Decorrenza Sottoscrizione Firma Originale Copia Nullità Inammissibilità

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