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   sinistri stradali 2008-03-16 ·  NEW:   Appunta · Stampa · modifica · cancella · pdf
  

Incidenti stradali e rito del lavoro: aspetti sostanziali, organizzativi e processuali, campo di applicazione, norme transitorie, connessione

Abstract: Di Claudio Viazzi (Magistrato, presidente seconda sezione civile Tribunale di Genova) - Fonte: www.ordineavvocatimilano.it

1) Premessa: l’alluvione sempre più inarrestabile di riforme e “riformette” intervenute negli ultimi tempi in diversi settori dell’ordinamento a cominciare da quello processuale civile, accompagnata come immancabile corredo da cattiva tecnica legislativa, mancato coordinamento tra nuove norme e tessuto normativo preesistente, lacune e contraddizioni caratterizzanti i nuovi principi, scarico frequente sulle spalle degli interpreti della soluzione di questioni cruciali irrisolte a livello normativo, ha sicuramente ampliato il catalogo già di per sé amaro ed inquietante, per dirla con il titolo di un recente libro, della “psicopatologia delle riforme quotidiane” (1) cui da qualche tempo ci ha abituato il nostro alacre legislatore. In questo quadro ben si colloca il recente del tutto inaspettato varo della miniriforma, a Camere pressochè sciolte, in materia di incidenti stradali, legge che come si vedrà, per le diverse aporie e insufficienze che la caratterizzano, ben potrebbe rientrare in una nuova categoria “patologica” delle leggi che potremmo chiamare “autolesionistiche”, vale a dire norme, riforme, leggine che si fanno del male da sole per il modo con cui – in genere inconsapevolmente – sono state tecnicamente congegnate; leggi autolesionistiche perchè contengono al loro interno tossine o altri elementi nocivi tali da provocare, se non si introducono adeguati e urgenti anticorpi, il rischio di una rapida fine o di applicazioni distorte se non opposte ai fini perseguiti. Le considerazioni che seguiranno riguardo al totale silenzio della legge in materia di diritto intertemporale, alla infelicissima individuazione delle controversie soggette al nuovo rito, alle numerose complicazioni derivanti dal rinvio in blocco alle norme del rito del lavoro, alla completa ignoranza di quello che comporterà l’applicazione del nuovo rito davanti al giudice di Pace induce ad alcune prime riflessioni, alla disattenzione sulle ricadute processuali derivanti dall’inserimento del nuove norme processuali all’interno del codice di rito, rappresentano, credo, sufficiente dimostrazione della fondatezza delle forse un po’ drastiche affermazioni testè fatte. Purtroppo è bastato un minimo approfondimento della riforma appena varata per affrontarne il primo impatto sugli uffici giudiziari e sull’utenza per far emergere, già in una prima lettura a caldo, diverse questioni interpretative di cui occorre dare subito conto, cercando di confrontarsi sulle possibili soluzioni più ragionevoli al fine di non far partire la riforma stessa nel più totale caos processuale ed organizzativo. In attesa del concreto svolgimento delle prime udienze disciplinate dal nuovo rito, una serie di prime questioni applicative meritano di essere segnalate con urgenza non solo agli operatori del settore ma auspicabilmente anche ai “conditores” affinché provvedano al più presto alla introduzione dei correttivi necessari prima che l’improvvida ed improvvisata riforma entri in vigore creando immediati conflitti interpretativi e guasti ben maggiori ai benefici che si intendevano apportare al settore. 2)L’assenza di norme transitorie: bisogna affrontare in primo luogo la grave omissione di prescrizioni in materia di diritto transitorio, omissione che comporta il drammatico dilemma se il nuovo rito trovi applicazione immediata anche alle cause pendenti al 1° aprile 2006 (2)in relazione alla fase in cui si trovano, questione che sembra fortunatamente orientarsi verso la soluzione più razionale che è quella negativa, vale a dire non estensione del nuovo rito alle cause pendenti al momento della sua entrata in vigore. Il problema è che comunque si tratta di una soluzione affidata all’interprete e quindi tale da restare appesa alla fragile diga dell’interpretazione ufficio per ufficio.(3) Verso la soluzione negativa convergono almeno tre ordini di ragioni: l’assenza di norme di diritto intertemporale nella l. 102/2006; l’inidoneità degli strumenti di conversione dettati dagli articolo 426 e 427 CPC a risolvere la questione; gli effetti confliggenti con la stessa ratio della riforma che comporterebbe la estensione del nuovo rito alle vecchie cause. Va invero privilegiata, in primo luogo, l’interpretazione secondo cui proprio l’assenza di una disposizione che preveda espressamente tale estensione ( con conseguente doveroso corredo di disposizioni intertemporali) costituisce l’elemento determinante per escludere tale estensione, trattandosi qui della sopravvenienza non di una legge regolante in modo nuovo un singolo istituto processuale o un aspetto specifico del processo (cui si possa applicare il tradizionale principio tempus regit actum, rispetto a cui si è sempre considerato l’articolo 5 Cpc come norma derogatrice ma non a caso riferita a due specifici profili quali sono la giurisdizione e la competenza), bensì l’intero schema processuale applicabile a tutti i gradi dei giudizi propri di un certo settore di controversie; ragion per cui appare preferibile applicare il principio opposto tempus regit processum lasciando così che tutte le cause pendenti al 1° aprile 2006 continuino ad essere regolate dal vecchio rito e solo quelle successivamente radicate seguano il nuovo. A conferma di questo assunto milita tra l’altro un argomento di carattere storico e cioè che tutte le volte in cui, negli ultimi decenni, sono state varate rilevanti riforme processuali, quando il legislatore ha ritenuto di estenderne l’applicazione anche alle controversie pendenti lo ha sempre esplicitamente disciplinato con apposite e specifiche norme transitorie: si pensi ad esempio all’articolo 90 comma 7 legge 353/90 (c.d. Novella del Cpc) che, in relazione al rito del lavoro applicato alle controversie locatizie (fin dal 1978) e oggetto di ri-sistemazione con il nuovo articolo 447bis Cpc (introdotto dall’articolo 70 della stessa l. 353), stabilì: «L’articolo 447bis…si applica ai giudizi pendenti previa ordinanza di mutamento di rito ai sensi dell’articolo 426 dello stesso codice»; oppure si pensi alla stessa Novella del 1990 di riforma parziale del rito ordinario che in una specifica norma transitoria (l’articolo 90 già citato) contenente una serie di specifiche disposizioni di diritto intertemporale, concludeva affermando: «Per quanto non disposto dai commi da 1 a 7, le disposizioni della presente leggesi applicano ai giudizi in corso alla data della sua entrata in vigore». La stessa riforma del 1973 sul rito del lavoro stabilì con apposite norme (articolo 17 e 22) la fase transitoria estendendo, sì, il nuovo rito anche alle cause pendenti, ma prevedendone una gestione “a stralcio” separata dal nuovo contenzioso, proprio per assicurare il successo della riforma stessa, non ingolfando le nuove sezioni lavoro che si costituivano con le cause vecchie convertite. Per converso in altre occasioni, allorché il legislatore non ha esteso le nuove norme processuali varate alle controversie pendenti, o lo ha detto in modo altrettanto esplicito come nel caso dell’articolo 82 legge 27 luglio 1978 sulle locazioni urbane («Ai giudizi in corso al momento dell’entrata in vigore della presente legge continuano ad applicarsi ad ogni effetto le leggi precedenti») o come nel recente caso dell’ultima riforma del rito ordinario di cognizione (articolo 8 legge 168/05 che ha escluso l’applicazione di tali norme “ai giudizi civili pendenti alla data del 1°gennaio 2006” termine poi prorogato con la legge 263/05 al 1°marzo 2006); oppure non ha detto nulla come nelle recenti leggi 80/2005 (4) e 263/05 relative al pasticciato (a dir poco) iter approvativi delle variazioni al Cpc, così come avvenne, per esempio, risalendo un po’ nel tempo, con la legge 320/63 di disciplina delle controversie dinnanzi alle sezioni specializzate agrarie (5). La conclusione di questa lunga digressione vuole quindi essere la seguente: non si danno esempi di riforme processuali in cui, nella totale carenza di norme transitorie di diritto intertemporale, in via interpretativa si sia pervenuti all’estensione delle nuove norme processuali a tutte le cause pendenti. Un secondo dato da considerare attiene poi agli strumenti di conversione messi a disposizione dagli articolo 426 e 427 Cpc, introdotti con la riforma del rito del lavoro, ma non inseriti nelle norme transitorie della stessa bensì nella disciplina “a regime”, il che spiega come la relativa struttura risulti chiaramente pensata per cause promosse successivamente all’entrata in vigore della riforma e da convertire nella fase preliminare (si veda il riferimento all’integrazione degli atti introduttivi). E che tali strumenti fossero insufficienti a risolvere i molteplici problemi che insorsero in fase di provvedimenti di conversione delle cause vecchie di lavoro, (per effetto della scelta estensiva di fondo fatta dalla riforma), pendenti in diverse fasi e gradi processuali, nel nuovo rito, lo dimostra abbondantemente la storia concreta dell’attuazione nei primi anni della riforma che vide un intervento della Corte costituzionale per risolvere il delicato problema delle cause contumaciali (v. sentenza 14/1977 declaratoria dell’incostituzionalità dell’articolo 20 della legge 533/73 in combinato disposto con l’articolo 426 Cpc nella parte in cui non prevedeva la comunicazione anche alla parte contumace – nelle cause pendenti all’entrata in vigore della riforma – dell’ordinanza che fissava l’udienza di discussione ed il termine perentorio per l’integrazione degli atti) e le centinaia di pronunce della Cassazione sulle varie questioni di conversione sorte concretamente nella prassi. Ciò a conferma di come, anche una riforma sicuramente organica e ben fatta tecnicamente come la legge 533/73, nell’unico punto trascurato di diritto transitorio della conversione da vecchio a nuovo rito sia stata fonte di innumerevoli complicazioni e conflitti interpretativi. Quindi, mancherebbero anche oggi adeguati strumenti di conversione. La terza considerazione contraria all’estensione risiede infine nel fatto che l’eventuale conversione rispetto al rito ordinario vigente, che a differenza di quello operante nel 1973 contiene già preclusioni e decadenze in ordine alle attività assertive e probatorie delle parti, rischia di rivelarsi in concreto o inutile oppure, paradossalmente, contrastante con la stessa ratio “acceleratoria” della riforma: basti pensare a tutte le cause già a precisazione delle conclusioni in cui il problema della conversione comporterebbe la fissazione di una nuova udienza di discussione (in cui il giudice ai sensi dell’articolo 431 Cpc deciderà la causa leggendo in udienza il dispositivo) che inevitabilmente comporterà lo slittamento in avanti della decisione. Se dunque questo sarà l’effetto più probabile se non scontato della conversione, irrazionalmente opposto agli obiettivi postisi dal legislatore, sembra del tutto ragionevole perseguire una soluzione interpretativa coerente con l’intenzione legislativa e con il precetto costituzionale della ragionevole durata dei processi, non convertendo in conclusione le cause vecchie. 3) Le implicazioni organizzative della riforma: Altra grave manchevolezza della leggina in esame è la totale mancanza di norme sugli aspetti organizzativi e logistici della riforma. Ci siamo forse scordati con che corredo di norme di tal fatta fu varata la riforma del processo del lavoro? (6) Solo un legislatore miope e frettoloso com’è quello che ha varato la riforma in esame può pensare che bastino nuove norme processuali da sole senza risorse e misure organizzative aggiuntive di supporto per far correre di più certe cause, quando si sa da tempo che la crisi del processo civile è soprattutto crisi organizzativa (di carichi di lavoro eccessivi, di cattiva distribuzione delle scarse risorse esistenti, di riparto inadeguato delle competenze, ecc.) e non di impianto inadeguato del processo. A parte l’ulteriore considerazione che non si comprende la ragione di una riforma del tutto scissa dall’altra pressoché coeva del rito ordinario di cognizione, che persegue lo stesso fine dell’accelerazione. Ciò che non si comprende affatto è quale sia, in definitiva, l’opzione di fondo del legislatore nel momento in cui si contrappongono, nel volgere di poco tempo, riti processuali contradditori tra loro, frutto di riforme a dir poco tra loro scoordinate: rito societario; rito ordinario riformato in senso acceleratorio; rito del lavoro per gli incidenti stradali. Il rito del lavoro, se vuole essere applicato correttamente, non può non coinvolgere problemi di risorse quali aule e assistenti per le udienze, riorganizzazione cancellerie (che saranno oberate da nuovi compiti come ad esempio comunicazioni e notificazioni prima ricadenti sulle parti e previste ex lege a carico degli uffici), a meno che non si decida in partenza di “neutralizzarlo” imbastardendolo immediatamente in prassi devianti in cui le cause a rito nuovo si mescoleranno nelle stesse udienze con quelle di rito ordinario in un unico calderone, senza udienza pubblica e assistente come avviene, al contrario, di regola nelle sezioni lavoro. Certamente non è un discorso facile, stante la nota scarsità delle risorse amministrative e logistiche, eppure se si vuole prendere sul serio la riforma e cercare il più possibile di attuarla efficacemente, rispettando la scelta di politica legislativa di introdurre una tutela differenziata a favore delle vittime degli incidenti stradali, occorre allora farsi necessariamente carico delle sue implicazioni di ordine organizzativo predisponendo adeguate misure a livello tabellare, che è quello che esattamente si è cercato di fare appena varata la riforma al Tribunale di Genova. Il nuovo rito deve avere una sua autonomia nel calendario delle udienze delle sezioni che trattano le relative controversie; vanno reperiti spazi ed assistenti per assicurare la pubblicità delle udienze (quanto meno l’udienza ex articolo 420 e quella di discussione/decisione – v. articolo 128 Cpc); ogni giudice, a sua volta, deve assicurare uno spazio apposito ed autonomo nel suo lavoro a questo contenzioso. La Sezione seconda civile del Tribunale di Genova si è già attrezzata in questo senso, appunto come conseguenza dell’aver preso sul serio la riforma nonostante tutte le sue evidenti manchevolezze. (7) Il problema diventa allora quello di fare in modo che in tutti gli uffici si adottino analoghe soluzioni organizzative e si avviino altresì adeguate iniziative di formazione professionale. 4) Il rinvio in blocco alle norme del rito del lavoro: Il rinvio “secco” e semplicistico a tutte le norme del rito del lavoro ed il mancato coordinamento tra queste e la materia degli incidenti stradali sta determinando una serie di curiosi ed in prevalenza falsi problemi di cui, comunque, si farebbe volentieri a meno perché sarebbe meglio dedicarsi ai problemi veri e seri che la riforma pone. Tralasciando la ridicola questione se improvvisamente sia divenuto competente per la materia dei sinistri stradali il giudice del lavoro (come se non si sapesse che il tribunale ordinario tratta già da tempo diversi contenziosi disciplinati dal rito del lavoro) altri interrogativi si sono già affacciati: ad esempio il tentativo di conciliazione ex articolo 410 e ss Cpc si farà davanti agli uffici provinciali del lavoro anche per i sinistri stradali?!; la risposta è ovviamente negativa ma il fatto che il ministero del Lavoro abbia sentito la necessità di fare un comunicato ufficiale in tal senso, la dice lunga sul fatto che la domanda non fosse del tutto peregrina. Il problema nasce dal fatto che tale istituto, o veniva rimodellato secondo proposte da tempo avanzate (8), oppure, in caso contrario non era neppure da richiamare essendo palesemente inoperante nel settore degli incidenti stradali. Altra questione riguarda la sorte della competenza del Giudice di Pace: è rimasta o è passato tutto al Tribunale? secondo una lettura frettolosa dell’articolo 413 Cpc si è ritenuto che la legge 102 abbia attribuito l’intera competenza delle controversie in materia di incidenti stradali al Tribunale; e ciò solo perché tale norma del Cpc fa riferimento alla competenza funzionale di tale organo giudiziario, mentre si dimentica che la norma aggiunge che tale competenza riguarda “le controversie previste dall’articolo 409” vale a dire quelle di lavoro. Quindi in assenza di qualsiasi indicazione non solo nella legge 102 ma negli stessi lavori preparatori, si tratta di conclusione a dir poco azzardata, non ricavandosi da alcunché un mutamento nell’assetto delle competenze a livello di organi giudiziari di primo grado. Lo stesso vale, coerentemente, per la competenza sulle impugnazioni, non potendosi certo riferire l’articolo 433 Cpc (che l’attribuisce alla Corte d’appello) alla materia in esame: anche qui la norma processuale si riferisce chiaramente all’appello contro le sentenze “pronunciate nei processi relativi alle controversie previste nell’articolo 409” non riguardando quindi la materia degli incidenti stradali. In conclusione, scelta normativa più felice sarebbe stata sicuramente quella fatta con l’articolo 447bis Cpc in cui il legislatore elencò espressamente le specifiche (e non tutte quindi) norme del rito del lavoro che si sarebbero applicate alla materia delle locazioni; oppure quella in altre occasioni fatta di un rinvio in blocco con l’espressa clausola “in quanto compatibili”. Aver dimenticato questo tipo più sensato di tecniche si evidenza in definitiva come un’ulteriore spia dell’approssimazione con cui la riforma è stata fatta. 5) Il nodo della individuazione delle controversie soggette al nuovo rito: Venendo a questioni più serie inizierei da quella dell’esatta delimitazione delle controversie assoggettate al nuovo rito processuale, non brillando la lettera dell’articolo 3 della legge 102 per chiarezza: cosa significa esattamente «cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni, derivanti da incidenti stradali»? come è evidente da una lettura testuale sembrerebbe subito di capire che ci si riferisca soltanto alle domande di risarcimento danni per morte o lesione. Inoltre la nozione di “incidente stradale” in primo luogo appare sovrapponibile o no all’area delle controversie disciplinate dall’assicurazione obbligatoria nella legge 990/69? La risposta a questa seconda domanda sembra essere negativa coprendo questa disciplina (v. articolo 2) anche la circolazione dei natanti che non svolgendosi, all’evidenza, su strada appare esclusa dalla riforma in esame. Sotto questo profilo, pertanto, l’area di applicazione della legge 990 è più ampia di quella rientrante nella legge 102. Viceversa sotto un altro profilo questa legge, sebbene in alcuni punti (v. articolo 5) richiami la disciplina della r.c.a., sembra riguardare un’area più ampia di controversie laddove si limita a parlare di controversie risarcitorie derivanti da “incidenti stradali”. Ciò significa: qualsiasi incidente che avvenga sulle strade (e quali esattamente? Quelle di cui all’articolo 1 del codice della strada? Altra domanda dalla risposta non sicura) anche indipendentemente dalla circolazione? Qui dovrebbe soccorrere in funzione giustamente restrittiva una lettura sistematica della l. 102 – non risolvendo certo la questione il mero testo dell’articolo 3 – che spinge io credo a ritenere l’area delle controversie disciplinate dal nuovo rito processuale necessariamente limitata agli incidenti collegati alla circolazione sulla strada di un qualche mezzo o veicolo “artificiale”, a motore o non. E quindi sotto questo profilo l’area delle controversie in oggetto potrebbe essere (il condizionale però è d’obbligo) più ampio di quello dell’assicurazione obbligatoria che non riguarda la circolazione sulle strade di veicoli non a motore, a cominciare, per esemplificare, dalle biciclette. Spinge a questa conclusione la storia stessa della riforma, finalizzata a migliorare la tutela delle vittime degli incidenti stradali, vale a dire del traffico e circolazione veicolare; così come la lettura complessiva della legge che in più punti fa espresso riferimento (nelle norme penali richiamate così come nell’inasprimento delle sanzioni accessorie) alla circolazione stradale. Che gli incidenti coinvolti nella riforma riguardino dunque necessariamente la circolazione stradale di veicoli, porta poi a restringere da un lato la materia disciplinata dal nuovo rito dall’area delle situazioni disciplinate dal codice della strada che fa riferimento, nell’articolo 1, alla “circolazione dei pedoni, veicoli e animali sulle strade”; mentre dall’altro sembra condurre ad escludere con una certa sicurezza, ad esempio, le controversie costituite dalle c.d. “insidie stradali” in cui la causa dell’incidente non è la circolazione di un veicolo ma lo stato della strada (vale a dire l’insidia). 6) Il rebus, in particolare, della connessione tra danni a cose ed alla persona: ma l’ulteriore e più delicata questione posta dall’infelicissimo tenore della nuova normativa, riguarda il rapporto tra cause risarcitorie per “morte e lesioni” e domande risarcitorie per danni a cose derivanti dallo stesso sinistro. Si tratta di una questione per così dire “pregiudiziale” rispetto all’interrogativo sulle sorti della riforma, subito segnalata dai primi commentatori della legge (9), che potrebbe clamorosamente svuotare di contenuto la riforma ancor prima che inizi ad operare: mi riferisco al mancato coordinamento tra l’articolo 3 della legge 102 contenente le nuove disposizioni processuali e le norme generali del Cpc in cui è stata inconsapevolmente inserita, e segnatamente l’articolo 40 comma 3 Cpc sulla connessione tra cause assoggettate a diversi riti. Premesso infatti che l’oggetto della estensione del rito del lavoro sembrerebbe, ad una prima lettura testuale, circoscritto dalla nuova norma alle sole “cause relative al risarcimento dei danni per morte o lesioni”come si è prima evidenziato e che quindi, in linea di principio, e su cui mi pare ci sia generale condivisione, all’eventuale domanda di risarcimento danni a cose continua ad applicarsi il rito ordinario, ne conseguirebbe che in caso di cumulo oggettivo tra domande risarcitorie per danni non patrimoniali e materiali (afferenti dunque alla persona ed alle cosa) occorrerebbe applicare la norma di rito sopra richiamata che attribuisce preferenza, di regola, al rito ordinario “salva l’applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri fra quelle indicate negli articoli 409 e 442”. Orbene, essendo il concetto di “cause indicate negli articoli….” (vale a dire controversie di lavoro e previdenziali), cosa ben diversa da “cause disciplinate dal rito del lavoro”, la conclusione dovrebbe essere inevitabilmente quella della preferenza del rito ordinario, non potendo applicarsi nel caso di specie la preferenza attribuita dalla Novella del 90 a tale rito speciale, in quanto tale preferenza opera soltanto se una delle cause connesse rientra tra le materie di cui agli articolo 409 e 442 Cpc. Il rinvio della norma, in altre parole, è chiaramente diretto alla materia ( contenendo invero gli articoli 409 e 442 null’altro che l’elenco delle controversie sostanziali assoggettate al rito speciale) e non al rito, per cui solo un’interpretazione a dir poco “correttiva” del chiaro testo dell’articolo 40 (in contrasto con l’articolo 12 preleggi) potrebbe portare a ritenere che la scelta preferenziale per il rito speciale non operi soltanto quando una delle cause connesse verta in materia di lavoro o previdenza, ma tutte le volte in cui tra le cause connesse una sia regolata dal rito speciale del lavoro (che è conclusione ben diversa). E siccome (si tratta dell’esperienza quotidiana di tutti) nella stragrande maggioranza delle controversie per incidenti stradali, o per effetto delle domande cumulativamente proposte dall’attore o per effetto della frequente domanda riconvenzionale del convenuto, si intrecciano domande risarcitorie per danni alla persona vittima dell’incidente, danni non patrimoniali e patrimoniali in capo ai superstiti della vittima primaria e danni materiali alle cose, ecco che l’applicazione dell’articolo 40 comma 3 Cpc potrebbe svuotare di effetti pratici la volontà legislativa di accelerare la trattazione delle cause in questione con l’estensione del rito del lavoro, o comunque creare conflitti interpretativi non di poco conto a seconda di come si interpreta l’articolo 40 comma 3 Cpc. Insomma, l’effetto paradossale sarebbe che l’applicazione del nuovo rito finirebbe col riguardare una quota minima di controversie né la soluzione può rinvenirsi nella scelta di proporre separatamente domande risarcitorie per le cose e per le persone posto che l’articolo 40 comma 3 si applica anche alle cause connesse “successivamente riunite” né si vede come cause derivanti dallo stesso incidente stradale possano rimanere tranquillamente separate, qualora si sperasse di aggirare il problema proponendo domane distinte. La questione non sembra, a questo punto, affatto peregrina o frutto di causidiche interpretazioni per cui occorrerebbe al più presto, potremmo dire, “in via principale” un intervento normativo chiarificatore teso a superare le incertezze applicative che si verranno altrimenti inevitabilmente a verificare e che magari eliminasse la sbagliata tecnica di ritagliare all’interno di una materia unitaria (incidenti stradali) una sub-materia, ritenuta magari anche a ragione, più importante (gli incidenti più gravi caratterizzati da morte o lesioni) dimenticandosi però di quali conseguenze si innescano sul piano processuale (riti differenziati, problemi di connessione, ecc.). L’altra strada più ragionevole da seguire, in attesa di ipotetici interventi legislativi, è allora necessariamente quella di operare sul piano ermeneutico, interpretando in senso ampio il concetto di cui all’articolo 3 della legge di “cause relative a risarcimento dei danni per morte o lesioni conseguenti ad incidenti stradali”, nel senso di ricomprendere in esso tutte le cause aventi domande risarcitorie (anche per danni a cose) purchè collegate agli incidenti più gravi implicanti morte o lesioni personali. Si tratterebbe, cioè, di rileggere la sgangherata dizione legislativa come se fosse stata scritta così: “ cause di risarcimento danni conseguenti ad incidenti stradali con morte o lesioni”. Sul piano interpretativo si tratta, come si vede, di “manipolare” la lettera della norma – alla luce della ratio della stessa – anteponendo le parole “conseguenti ad incidenti stradali” e sostituendo al “per” un “con”: è una forzatura ammissibile? io penso di sì perché sembra l’unica coerente con la ratio della riforma ed in grado di evitarne lo svuotamento per effetto del citato articolo 40 Cpc. Se è vero infatti che restano certamente fuori dalla riforma le cause aventi ad oggetto richieste di danni soltanto materiali dipendenti da incidenti in cui non sia implicata la morte o la lesione personale di chicchessia, appare ragionevole ritenere che quando in un incidente si siano verificati tali eventi più gravi il rito del lavoro “attragga” anche le eventuali domande risarcitorie “minori” o accessorie da esso dipendenti riguardanti danni materiali. Ed in questo senso sarebbe la stessa norma dell’articolo 3 legge 102 a porsi, per la sua valenza insieme sostanziale e processuale, come deroga implicita alla regola generale fissato nell’articolo 40 comma 3 Cpc prima citato, secondo il principio lex specialis posterior derogat legi generali anteriori. Questa conclusione a favore di un’interpretazione ampia e non restrittiva dell’articolo 3 della legge la si ricava certamente dai lavori preparatori della stessa in cui mai qualcuno ha affermato conclusioni opposte ed anzi tutti gli intervenuti hanno sempre genericamente fatto riferimento ai “risarcimenti dei danni conseguenti ad incidenti stradali” più gravi ( v. ad es. il relatore sen. Zancan, in commissione giustizia Senato ),ovvero alle “controversie di natura civile in materia di infortunistica stradale laddove seguite alla morte o lesioni” (on. Bonito, seduta commissione Camera 9 marzo 2005) come tipologia di controversie meritevoli della sottoposizione al rito più accelerato del lavoro. Ne consegue, per contro, che solo una interpretazione restrittiva dell’area di controversie cui si applichi il nuovo rito, vale a dire un’interpretazione che, in caso di domande risarcitorie per danni a cose cumulate con richieste di danni per morte o lesione personale, ritenga loro applicabili riti diversi, finirebbe inevitabilmente con l’impattare nell’articolo 40 comma 3 Cpc prima esaminato che porta inesorabilmente all’applicazione del rito ordinario come rito “attraente”: con conseguente svuotamento delle finalità della riforma, ma anche in contrasto con l’articolo 12 preleggi secondo cui il “senso” da attribuire ad una legge discende non solo da “quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse” ma anche “dall’intenzione del legislatore” che, nel caso specifico, sembra proprio essere solo quella di applicare il rito del lavoro a tutte le cause risarcitorie collegate agli incidenti stradali più gravi (con morte e/o lesioni personali), senza alcuna distinzione all’interno delle relative cause delle molteplici eventuali e diverse voci di danno reclamate. La conclusione che si offre pertanto alla riflessione vuole essere il più possibile “conservativa” e pienamente rispettosa della scelta legislativa (anche se male espressa) e non certo “demolitoria”, perché fatta nello sforzo di fornirne una interpretazione conforme alla ratio legis e tale da porla al riparo da implicazioni di ordine costituzionale (per le evidenti conseguenze irrazionali che la tesi restrittiva comporterebbe: applicazione di riti diversi ad incidenti egualmente gravi solo perché, magari, in uno i danni materiali sono stati, come capita sovente, concordati stragiudizialmente ) ma non appare tale, comunque, da metterci completamente al riparo da possibili complicazioni e da interpretazioni contrastanti. La scelta adottata dal legislatore in scadenza di mandato resta,infatti, aspramente criticabile laddove ha semplicisticamente ritagliato all’interno della materia “incidenti da circolazione stradale” soltanto una parte delle cause risarcitorie, non curandosi inoltre affatto del lessico utilizzato per descrivere tale scelta, e ciò per giunta all’interno di un processo civile parallelamente oggetto di altre significative riforme in funzione acceleratoria, e senza alcun coordinamento con esse, creando una nuova “nicchia” od “oasi” di applicazione del rito speciale del lavoro, e senza alcuna attenzione rivolta alla realtà e problemi degli uffici del Giudice di Pace in cui la riforma troverà non facile attuazione (non fosse altro perché un rito “impegnativo” com’è quello del lavoro viene messo in mano ad un giudice onorario, ed è la prima volta che accade che un giudice onorario gestisca un rito da sempre affidato dal legislatore a giudici professionali e, nel caso delle controversie di lavoro, specializzato). Con l’interpretazione ampia suggerita, tra l’altro possono trovare coerente e ragionevole soluzione tante situazioni che,soprattutto davanti ai giudici di Pace, potranno verificarsi. Pensiamo alla controversia che inizi con una richiesta di soli danni materiali: essa sarà certamente iniziata correttamente con rito ordinario; tuttavia se il convenuto chiederà in via riconvenzionale danni alla persona, in forza dell’articolo 3 legge 102, se questa norma verrà interpretata come derogatrice della regola ex articolo 40 comma 3 Cpc, le cause cumulate ex articolo 36 Cpc, previa conversione ex articolo 426 Cpc, in un simultaneus processus saranno regolate dal rito del lavoro anziché dal rito ordinario. 7) A proposito di “coerenza” del legislatore: Infine, una notazione deve essere sviluppata a proposito del tasso di “coerenza” rinvenibile nelle più recenti scelte legislative effettuate in materia processuale civile. Non può non rimarcarsi il fatto che l’inaspettata estensione del rito del lavoro che stiamo esaminando appare scelta processuale in assoluta “controtendenza” non solo con la recente riforma del processo societario, a conferma di una clamorosa contraddizione, nelle scelte di fondo effettuate in materia di processo civile, in cui è caduta la stessa maggioranza parlamentare autrice delle due riforme, ragion per cui resta davvero un rebus individuare quale sia oggi il rito processuale preferito dal legislatore; ma in controtendenza anche con l’assetto raggiunto con la Novella del Cpc del 1990 proprio in materia di rapporti tra riti speciali e rito ordinario, assetto che sembrava irreversibile. La scelta effettuata nel 1990 con il citato articolo 40 Cpc novellato nella disciplina dei rapporti tra rito ordinario e rito speciale del lavoro, fu infatti quella di assegnare prevalenza alla materia e non al rito di per se stesso, come s’è visto prima esaminando il 3° comma di tale norma. Il che significò una svolta importante rispetto alla logica processuale della “emergenza” che aveva contrassegnato la proliferazione di leggi e leggine che negli anni 70e 80 estesero via via il rito del lavoro alle materie e controverie più disparate senza alcuna logica d’insieme e sempre nell’illusione di accelerare la gestione dei diversi contenziosi cui si estendeva tale rito. Come si rilevò a suo tempo correttamente (10) “se la scelta attuale (fatta con l’articolo 40 comma 3) fosse stata operata nel senso di attribuire prevalenza al rito, la regola di esclusione dall’applicazione del rito ordinario avrebbe certamente conosciuto un ambito più vasto: non resta quindi che avanzare la considerazione per cui la nuova norma sul simultaneus processus comporta una implicita negazione di quelle ragioni,valutate dal legislatore in tutti i casi di estensione del rito del lavoro relativamente a controversie diverse da quelle di cui agli articoli 409 e 442 Cpc: ed anche in ciò può riconoscersi un segnale di chiusura dell’ emergenza che in anni trascorsi ha fatto (legittimamente del resto) guardare al processo ordinario come ad un modello fortemente negativo ed inadeguato quale occorreva necessariamente distaccarsi per assicurare un minimo di efficienza e celerità processuale”. Paradossalmente, di fronte al pasticcio della legge 102/06, per salvare la riforma occorre adesso adottarne una interpretazione “ortopedica” che ritorna in ogni ad attribuire prevalenza al rito speciale rispetto al rito ordinario, assecondando nuovamente la logica dell’emergenza che sta dietro a questo nuovo aggrapparsi di un legislatore un pò disperato al salvagente del “mitico” e “salvifico” rito lavoristico; e ciò proprio nel momento in cui il rito ordinario è stato nuovamente riformato a sua volta in funzione acceleratoria! La conclusione di queste prime riflessioni a caldo non può che essere quindi improntata a sconcerto ed amarezza, essendosi evidenziato credo a sufficienza cosa significhi quel carattere pericolosamente “autolesionistico” della riforma in esame, al di là della chiara intenzione di semplificare ed accelerare il contenzioso in materia di r.c.a., se non si adotteranno una serie di convenzioni interpretative ragionevoli al fine di immunizzarne tale esito patologico.

NOTE (1)Luciano GALLINO, “ Psicopatologia delle riforme quotidiane”, Bologna 2006; (2)Data di entrata in vigore della l. 102/2006: anche qui sarebbe stato più opportuno prevedere una vacatio legis più ampia per consentire agli uffici di attrezzarsi con più tempo a disposizione in vista del concreto avvio della riforma; (3)Nel senso del testo si è già pronunciato l’Osservatorio sulla giustizia civile di Milano con una apposita risoluzione, in “ Guida al diritto”, n. 16/2006, pag. 118; (4)La mancanza di norme di diritto intertemporale nella l. 80/2005, date le ampie modificazioni della precedente disciplina che si trascinava dietro, è stata letta nel senso dell’applicazione della riforma solo “ai processi la cui domanda sia notificata dopo il 12 settembre 2005” (data originaria dell’entrata in vigore): v. in tal senso Giovanni VERDE, “Sulle variazioni al codice di procedura: l’incognita del diritto intertemporale”, in Guida al diritto, n. 22/2005, pag. 24 e ss; (5)L’articolo 6 legge 320/63, rubricato «Norme processuali transitorie» si limitava invero a stabilire che i procedimenti pendenti innanzi alle sezioni specializzate abolite o iniziati successivamente al 20.12.1962, erano “sospesi di diritto” e dovevano “venir riassunti” davanti alle neo- costituite sezioni specializzate, escludendosi quindi implicitamente che a tali vecchie cause riassunte si dovesse applicare il nuovo rito del lavoro che il precedente articolo 5 della legge estendeva alle controversie agrarie; (6)Gli articolo da 21 a 29 della legge 533/73 disciplinarono tutti gli aspetti inerenti alle strutture giudiziarie ed amministrative di supporto che si andavano ad introdurre negli uffici, con apposite norme in materia di organici e di impegno finanziario; (7)Il Presidente della sezione competente ha proposto, a seguito di riunioni indette nella sezione ai sensi dell’articolo 47 quater O.G., una modifica tabellare urgente al Presidente del Tribunale in data 24 marzo 2006, contenente l’organizzazione della sezione conseguente all’introduzione del nuovo rito; tale proposta è stata interamente e prontamente recepita dal Presidente con proprio decreto di variazione urgente in data 27.3.2006; (8)La proposta di qualche anno fa elaborata da Andrea PROTO PISANI e presentata sul Foro Italiano di far precedere le controversie in materia di incidenti stradali da un tentativo obbligatorio di conciliazione davanti agli uffici dell’ACI, è stata ripresa di recente da Roberto BRACCIALINI in “Rc auto, ora serve la conciliazione”, in Diritto e Giustizia, n. 11/2006, pag. 11; (9)V. Claudio VIAZZI, “ Via al rito del lavoro per le liti Rc auto; ma la riforma rischia di restare al palo”, in Diritto e Giustizia, n. 12/2006, pag. 100 e ss; v. anche risoluzione Osservatorio di Milano citata sub 3; (10) In tal senso si è chiaramente espresso Bruno CAPPONI,“ Commento all’articolo 40 CPC novellato”, in Il Corriere giuridico n. 1 /1991, pag. 22 e ss.


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Testo del 2008-03-16 - Fonte: www.ordineavvocatimilano.it



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