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Contratti    

La clausola generale di buona fede: quando è violata dal committente di un appalto privato?

L'avvocato Tommaso Gioia mi chiede di segnalare questo interessante testo di Alessia Averso per promuoverlo anche tra i lettori di civile.it.

Li ho incontrati navigando sul web sul loro sito, officeadvice che vi invito a visitare.

Ecco la presentazione:

La buona fede permea il nostro ordinamento giuridico ed ha origine risalente al diritto romano.

In dottrina e giurisprudenza s’intensificano i dibattiti relativi alla “buona fede integrativa”, quale strumento “correttivo” del contratto. Invero, quest’ultimo è ormai mutato, non è più disciplinato esclusivamente ed indiscriminatamente dalla volontà delle parti, ma anche da fonti eteronome, finalizzate alla miglior tutela della parte che subisce un’eventuale asimmetria contrattuale.

12.04.2021 - pag. 95505 print in pdf print on web

I

Indice

1. Introduzione
2. La buona fede nell’ordinamento giuridico contemporaneo
2.1. Un autonomo dovere di condotta
2.2. Una fonte d’integrazione del contratto
2.3. Uno strumento di contenimento dell’abuso del diritto
3. L’appalto privato: quando il committente viola la clausola di buona fede?
3.1. L’appalto privato e l’intuitu personae
3.2. Quando il committente viola la clausola di buona fede
4. Conclusione

1. Introduzione

La buona fede permea il nostro ordinamento giuridico ed ha origine risalente al diritto romano.
In dottrina e giurisprudenza s’intensificano i dibattiti relativi alla “buona fede integrativa”, quale strumento “correttivo” del contratto. Invero, quest’ultimo è ormai mutato, non è più disciplinato esclusivamente ed indiscriminatamente dalla volontà delle parti, ma anche da fonti eteronome, finalizzate alla miglior tutela della parte che subisce un’eventuale asimmetria contrattuale.

1.1. Una regola di comportamento “senza tempo”: cenni alla bona fides del diritto romano

La buona fede, intesa nella sua accezione oggettiva, esprimeva i concetti di lealtà e correttezza, nonché le qualità che contraddistinguevano il bonus vir.
Per il diritto romano, in particolare per lo ius gentium, ossia il diritto comune a tutte le gentes (c.d. popoli) poiché fondato sulla ragione naturale1, la bona fides costituì un vero e proprio principio cardine, tanto che, proprio dall’applicazione dei principi di bona fides, conseguì l’ampio potere discrezionale ed integrativo della giurisprudenza nei bonae fidei iudicia (c.d. giudizi di buona fede).

2. La buona fede nell’ordinamento giuridico contemporaneo

In epoca contemporanea, anche grazie al contributo della giurisprudenza, la buona fede continua ad assolvere un ruolo di notevole rilevanza e progressiva espansione, soprattutto in materia contrattuale.
È opportuno precisare che la medesima locuzione “buona fede” è espressione di un duplice e differente significato: soggettivo ed oggettivo, a seconda che rappresenti un’individuale situazione psicologica o un generale dovere di comportamento.
A tal proposito, la buona fede soggettiva si sostanzia nello stato psichico tipico di chi ignora di ledere l’altrui diritto, mentre, quella oggettiva configura un generico dovere di contegno: leale e corretto.
Le regole, non scritte, della lealtà e della correttezza sono regole di costume e corrispondono a ciò che un contraente di media lealtà e correttezza si sente in dovere di fare o meno.
Inoltre le clausole di buona fede, lealtà, correttezza e diligenza, sono definite “clausole generali”, poiché assumono contenuti nient’affatto statici, bensì elastici, indefiniti e modellabili a seconda delle peculiarità che connotano il caso concreto.
Secondo il convincimento di dottrina accreditata2, l’effettivo contenuto di dette clausole è da ricercare nei principi costituzionali in materia di diritti e doveri dei soggetti privati, nonché nei lineamenti generali che il principio di solidarietà ha assunto nel sistema civilistico, concretizzandosi essenzialmente nell’inderogabile dovere di non cagionare danno ad altri.
Le clausole medesime, infatti, sono finalizzate ad “aprire le maglie del diritto” ai valori sociali che veicolano, seppur nel rispetto dei limiti ex lege.

2.1. Un autonomo dovere di condotta

Ai sensi dell’art. 1175 c.c., il dovere di comportarsi secondo buona fede e correttezza costituisce un autonomo dovere giuridico – derivante direttamente dal principio di solidarietà sociale (ex art. 2 Cost.)- che impone a ciascuna delle parti contrattuali3 di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, e ciò a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali, del dovere extracontrattuale del “neminem laedere” o di quanto espressamente stabilito ex lege, sicché dalla sola violazione di tale regola di comportamento, può derivare un danno risarcibile.4
L’ordinamento giuridico italiano effettua un costante richiamo alla buona fede, giammai limitandosi alla fase meramente esecutiva del contratto – ove, ex art. 1375 c.c., costituisce criterio di valutazione del comportamento tenuto dalle parti nell’adempimento – , ma involgendo l’intero fenomeno negoziale, sin dalla sua genesi.
Di conseguenza, la predetta clausola di condotta deve essere rispettata in fase di trattative e formazione del contratto ex art. 1337 c.c., in caso di pendenza di condizioni sospensive o risolutive ex art. 1358 c.c., in sede d’interpretazione contrattuale ex art. 1366 c.c., vieppiù che, in caso di eccezione di inadempimento, non è consentito il rifiuto all’esecuzione, se lo stesso risulti contrario a buona fede ex art. 1640 c.c.
Sul tema de quo si è recentemente pronunciata la Suprema Corte con Ordinanza n. 622 del 14.01.2019, di cui si cita un estratto: “in tema di contratti, il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve presiedere all’esecuzione del contratto, così come alla sua formazione ed alla sua interpretazione e, in definitiva, accompagnarlo in ogni sua fase, sicché la clausola generale di buona fede e correttezza è operante tanto sul piano dei comportamenti del debitore e del creditore nell’ambito del singolo rapporto obbligatorio, quanto sul piano del complessivo assetto di interessi sottostanti all’esecuzione di un contratto, concretizzandosi nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte e ponendosi come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così integrativamente il contenuto e gli effetti del contratto. La buona fede, pertanto, si atteggia come un impegno od obbligo di solidarietà, che impone a ciascuna parte di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere del “neminem laedere”, senza rappresentare un apprezzabile sacrificio a suo carico, siano idonei a preservare gli interessi dell’altra parte”.5

2.2. Una fonte d’integrazione del contratto

Precisato che il principio della buona fede oggettiva impone a ciascuna delle parti del rapporto contrattuale di agire nell’ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, come già si evince dall’Ordinanza succitata, sia in dottrina che in giurisprudenza è prevalente l’opinione, secondo la quale, la buona fede rappresenti una preziosa fonte d’integrazione del contratto.
All’integrazione del contratto il codice civile vigente dedica l’art. 1374 c.c., ivi prescrivendo che “il contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge o in mancanza secondo gli usi e l’equità”.
Il criterio della buona fede, inteso in senso costituzionalmente orientato, rappresenta per il giudice uno strumento (dal notevole margine d’azione) per adeguare le pattuizioni contrattuali, riequilibrandone gli interessi e le eventuali asimmetrie.
Al riguardo, si palesa esplicativo l’estratto di una Sentenza degli Ermellini secondo cui: “I principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione e nell’interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175, 1366 e 1375 c.c., rilevano sia sul piano dell’individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto”.6

2.3. Uno strumento di contenimento dell’abuso del diritto

La buona fede oggettiva assume nell’ordinamento un ruolo di garanzia, in particolare, di controllo integrativo del contratto (anche modificativo) al fine di contenere gli abusi del diritto e realizzare un equilibrio degli opposti interessi, anche diverso, da quello voluto dalle parti: così sovrapponendo alla loro volontà un’ideale giustizia contrattuale.
Secondo la pronuncia del maggio 2020 della Corte di Appello dell’Aquila: “L’abuso è ravvisabile quando il concreto esercizio di un potere conferito al soggetto dal diritto comporti un’inammissibile ed ingiustificata compressione dei diritti della controparte.”7
Pertanto, quando la condotta di un contraente si sostanzia nell’esercizio di un diritto, in sé legittimo, ma in maniera tale da ledere la sfera giuridica altrui, si verifica un abuso del diritto.
Da ultimo autorevolmente chiarito dalla Cassazione con l’Ordinanza del febbraio 2020: “Si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti.”
Ebbene, nella materia de qua, si palesano indiscutibili, ed ormai consolidati, i poteri correttivi dell’autonomia contrattuale riconosciuti al giudice:8 “Ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito sindacare e dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere, senza che ciò costituisca una ingerenza nelle scelte economiche dell’individuo o dell’imprenditore, giacché ciò che è censurato in tal caso non è l’atto di autonomia negoziale, ma l’abuso di esso”. 9

3. L’appalto privato: quando il committente viola la clausola di buona fede? 3.1. L’appalto privato e l’intuitu personae

L’appalto – probabilmente dal latino ad pactum “a contratto”- è un contratto bilaterale, consensuale ed a titolo oneroso.
Il medesimo è definito dal legislatore all’art. 1655 c.c. e consiste in un contratto, tramite il quale una parte (c.d. appaltatore) si impegna, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, a compiere un’opera o un servizio a beneficio dell’altra parte (c.d. committente), verso il pagamento di un corrispettivo in danaro.
Una delle peculiarità dell’appalto risiede nella particolare rilevanza delle qualità e/o qualifiche dei soggetti contraenti, precisamente, l’intuitu personae riguarda non la persona dell’appaltatore stricto sensu, bensì l’impresa esecutrice in toto.
A riconferma di tale assunto vi sono l’art. 1656 c.c. che vieta il subappalto ad altra impresa (salvo specifica autorizzazione del committente) e l’art. 1674 c.c. secondo cui, il contratto d’appalto non si scioglie automaticamente per la morte della persona dell’appaltatore.
Di conseguenza, l’impresa esecutrice può continuare ad essere parte del contratto d’appalto, pur dopo la morte del titolare o di uno dei principali esponenti, purché la persona dell’appaltatore non sia stata il motivo determinante la stipula del contratto (la conservazione del contratto soccombe all’intuitu personae).

3.2. Quando il committente viola la clausola di buona fede

Proprio perché la buona fede oggettiva rappresenta un dovere di comportamento dai contenuti variabili a seconda delle circostanze concrete, essa trova la sua più ampia applicazione nel contratto d’appalto, in ragione dell’intuitu personae, e quindi, dello spiccato carattere di fiducia reciproca, che caratterizza le sue parti contraenti.
Sebbene il compimento dell’opera sussunta nel contratto ut supra riposi interamente sulla perizia e sull’impulso realizzativo dell’appaltatore, non possono trascurarsi le violazioni eventualmente poste in essere dall’appaltante.
Dall’analisi della rassegna della giurisprudenza di legittimità, emergono i principali casi in cui il committente/appaltante risponde per violazione della clausola di buona fede.

– Il committente recede senza giusta causa dalle trattative precontrattuali
Un’improvvisa ed ingiustificata rottura delle trattative, è considerata contraria alla suddetta clausola, poiché intervenuta dopo che l’impresa appaltatrice aveva avuto motivo di fare legittimo affidamento sulla futura conclusione del contratto d’appalto.
L’impresa stessa, per esempio, aveva già predisposto la sua organizzazione, acquistato materiali, assunto nuovi dipendenti o, per dedicarsi a tale adempimento, aveva dovuto rinunciare ad altri contratti d’appalto.

– Il committente non coopera all’adempimento dell’appaltatore bensì lo ostacola
I doveri generali di correttezza e buona fede oggettiva impongono al committente di porre in essere tutte quelle attività e tutti quegli adempimenti, distinti rispetto a quanto dovuto dall’appaltatore, affinché quest’ultimo possa conseguire il risultato cui l’obbligazione contrattuale è preordinata. Ciò in quanto, secondo costante giurisprudenza10 è da ritenersi applicabile il principio ex art. 1206 c.c.11
Pertanto, il committente che non collabora ma al contrario osteggia il pieno e corretto adempimento dell’impresa esecutrice, viola il dovere di lealtà e correttezza.

Il committente viola l’obbligo di informazione ed avviso
Se l’appaltante è reticente, ossia omette di informare l’appaltatore su fatti e circostanze che rendono notevolmente più onerosa la sua prestazione, viola la clausola di buona fede.

– Il committente rifiuta di versare il saldo del prezzo all’appaltatore in caso di preventiva accettazione senza riserve
Nella materia de qua, l’art. 1665 c.c. indica i fatti ed i comportamenti dai quali deve presumersi la sussistenza dell’accettazione da parte del committente, ossia, la consegna dell’opera al committente è presupposto dell’accettazione, come pure fatto concludente della “ricezione senza riserve”, anche se “non si sia proceduto alla verifica”, donde consegue l’indubbio diritto dell’appaltatore al pagamento del prezzo!
Difatti, è pacifico che l’art. 1667 c.c. indica nel medesimo committente la parte gravata dall’onere della prova di tempestiva denuncia di eventuali vizi.12

– Il committente pone in essere un’eccezione d’inadempimento contraria a buona fede
In tema d’inadempimento del contratto d’appalto, nel caso in cui l’opera sia stata realizzata in violazione delle regole tecniche o delle prescrizioni pattuite, il committente, convenuto per il pagamento del prezzo, può esperire l’eccezione d’inadempimento, in virtù del principio inadimplenti non est adimplendum, richiamato dal secondo periodo dell’ultimo comma dell’art. 1667 c.c., anche quando non abbia proposto, in via riconvenzionale, la domanda di garanzia o la stessa sia prescritta.13
Tuttavia, questo “strumento giuridico di autotutela” deve essere esercitato nel rispetto del principio di buona fede, affinché non si trasformi in un mezzo pretestuoso per eludere le proprie obbligazioni.
Specificatamente, vi deve essere un’effettiva proporzionalità fra i due inadempimenti.
Emblematica e chiarificatrice in tal senso è una pronuncia della Suprema Corte14, secondo cui, il committente che rifiuta di versare il saldo del prezzo all’appaltatore -invocando l’inadempimento ex art. 1460 c.c. – viola il principio di buona fede contrattuale, allorquando l’opera è stata eseguita a regola d’arte, sebbene in modo leggermente difforme rispetto al progetto originario e dunque, nel rispetto della buona fede, l’appaltatore risulta del tutto meritevole di essere integralmente ripagato.

– Il committente, dopo aver richiesto consistenti variazioni d’opera, pretende il rispetto del medesimo termine di consegna e l’efficacia della penale per il ritardo
Quando nel corso dell’esecuzione del contratto d’appalto, il committente richiede all’appaltatore variazioni consistenti del progetto, il termine di consegna e la penale per il ritardo, precedentemente pattuiti in contratto, decadono automaticamente in conseguenza del mutamento dell’originario piano dei lavori e del relativo computo metrico estimativo.15
Come recentemente sostenuto dagli Ermellini nell’Ordinanza del 20.08.2019 n. 2151516 e nella Sentenza del 02.04.2019 n. 915217: “la richiesta di notevoli e importanti variazioni delle opere, avanzata in corso di esecuzione dei lavori dal committente, comporta la sostituzione consensuale del regolamento contrattuale in essere e il venir meno del termine di consegna e della penale per il ritardo originariamente pattuiti. L’efficacia della penale è tuttavia conservata soltanto se le parti fissano di comune accordo un nuovo termine mentre, in mancanza, grava sul committente, che intenda conseguire il risarcimento del danno da ritardata consegna dell’opera, l’onere di fornire la prova della colpa dell’appaltatore.”
Per completezza deve precisarsi che, anche se è pattuita una clausola penale, l’appaltatore può sempre provare che il ritardo nell’esecuzione dei lavori sia stato determinato da impossibilità della prestazione, derivante da causa a lui non imputabile.

– Il committente prevede una penale manifestamente eccessiva
Se il committente di un appalto fissa un’eccessiva e sproporzionata penale per ritardo, l’art. 1384 c.c. conferisce al giudice il potere di ridurla, così da “correggerla”.
Sicché, in via equitativa, nel rispetto dei canoni di correttezza e lealtà, il giudice contempera gli interessi contrapposti, valutando in concreto l’interesse dell’appaltante all’adempimento, con riguardo all’effettiva incidenza di esso sull’equilibrio delle prestazioni.

4. Conclusione

In definitiva, “la buona fede contrattuale”, non si limita ad essere un mero referente etico, piuttosto gode di piena rilevanza normativa, limitando di fatto il potere negoziale conferito all’autonomia privata.
Ciò in quanto, un’applicazione “acritica” delle norme, che non tenga conto delle finalità a cui le stesse tendono, rischia di avere nei casi concreti gravi effetti distorsivi, sino a causare vere e proprie ingiustizie.
Un diritto che non persegua il fine ultimo della giustizia non avrebbe ragion d’essere, ed è per tale ragione che il generale dovere di comportamento leale e corretto risulta essere ausilio prezioso per il giudicante. Come l’aforisma latino insegna: “summum ius summa iniuria18, non può esserci giustizia senza equità e rispetto del dovere di buona fede.

Note (link alla fonte):


1 “Omnes populi, qui legibus et moribus reguntur, partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur: nam quod quisque populus ipse sibi ius constituit, id ipsius proprium est vocaturque ius civile, quasi ius proprium civitatis; quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit, id apud omnes populos peraeque custoditur vocaturque ius gentium, quasi quo iure omnes gentes utuntur”. (“Tutti i popoli, che son retti da leggi e consuetudini si valgono di un diritto che in parte è loro proprio, in parte è comune a tutti gli uomini; infatti il diritto, che ciascun popolo si è stabilito da se stesso, è specificamente proprio di quel popolo e si chiama diritto civile, nel senso di diritto proprio della civitas, mentre quello che la ragion naturale ha stabilito fra tutti gli uomini viene osservato nello stesso modo presso tutti i popoli e viene chiamato diritto delle genti, nel senso di diritto del quale tutte le genti si valgono” (Gaio, Istituzioni, 1,1).
2 Stefano Rodotà, in “Le fonti di integrazione del contratto, 2004, Giuffrè.
3 In tema di contratti, la buona fede oggettiva, è definita “buona fede contrattuale”.
4 Corte di Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza del 25.11.2008, n. 28056.
5 Corte di Cassazione, Sezione 6 civile, Ordinanza del 14.01.2019, n. 622.
6 Corte di Cassazione, Sezione 3 civile, Sentenza del 21.06.2011, n. 13583.
7 Corte di Appello di L’Aquila, Sezione civile, Sentenza del 15.05.2020, n. 684.
8 Relazione Tematica n. 116 della Corte Suprema di Cassazione, Ufficio del Massimario e del Ruolo Oggetto: Contratti in genere – Effetti del contratto – Eterointegrazione – Integrazione dello statuto negoziale – Fonti – Buona fede – Inclusione – Governo del contratto – Ruolo del giudice (Roma, 10 settembre 2010).
9 Corte di Cassazione, Sezione 2 civile, Ordinanza 28.02.2020, n. 5514.
10 Cass., Sez. 2, del 22.11.2013 n. 26260 e del 03.07.2000 n. 8881 e del 30.01.1992 n. 1020; Cass., Sez. 1, del 05.06.2014 n. 12698 e del 29.04.2006 n. 10052.
11 “Il creditore è in mora quando, senza il motivo legittimo, non riceve il pagamento offertogli nei modi indicati dagli articoli seguenti o non compie quanto è necessario affinché’ il debitore possa adempiere l’obbligazione”.
12 Corte di Cassazione, Sezione 2 civile, Sentenza del 4 gennaio 2018, n. 80.
13 Corte di Cassazione, Sezione 2 civile, Sentenza del 20 marzo 2012, n. 4446.
14 Corte di Cassazione, Sezione 6 civile, Ordinanza del 26.112013, n. 26365.
15 Documento che stima, elencando tutte le lavorazioni che sarà necessario eseguire nell’intervento edile, i costi relativi ad ognuna di esse.
16 Corte di Cassazione, Sezione 2 civile, Ordinanza del 20 agosto 2019, n. 21515.
17 Corte di Cassazione, Sezione 2 civile, Sentenza del 2 aprile 2019, n. 9152.
18 “Estrema giustizia, estrema ingiustizia” Cicerone (De Officiis I, 10), invoca un’interpretazione non formalistica delle leggi, attenta al principio più generale della giustizia.


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