Segui via: Newsletter - Telegram
 

"La nostra società non ha più i pericoli di una volta, ma rischi, perché sappiamo cosa fare davanti ai pericoli" - prof. Elena Esposito, Bologna



Pacs    

Il divo Giulio boccia i Dico

Tutta, sempre, colpa di Andreotti
15.02.2007 - pag. 40075 print in pdf print on web

A

Andreotti: "Se la cosiddetta modernità vuol dire che addirittura si possa legiferare sulle unioni tra persone dello stesso sesso, si è veramente fuori dal giusto.

Nel disegno di legge c'è questo grosso problema: è lì dove si parla delle unioni di fatto tra persone 'anche dello stesso sesso'. Questa cosa non mi va giù.

Non sarebbe male se tutti, compreso Prodi, si andassero a rileggere Dante: i sodomiti nella Divina Commedia finiscono all'inferno. Non c'è un quarto girone che si crea per decreto legge."

I favorevoli ai Dico hanno citato i papi messi all'inferno da Dante.

Noi vorremo dire che c'erano anche tanti governanti all'inferno.

Per convinzioni personali noi puntiamo al purgatorio, insieme ai golosi. Non vorremmo finire con Ciacco...

 

Stavolta pero' la citazione e' debole: Dante non "bistratto'" Brunello, suo maestro di cose etterne  ...

  • Così adocchiato da cotal famiglia, 
  • fui conosciuto da un, che mi prese 
  • per lo lembo e gridò: «Qual maraviglia!». 
  •       E io, quando ’l suo braccio a me distese, 
  • ficcai li occhi per lo cotto aspetto, 
  • sì che ’l viso abbrusciato non difese 
  •       la conoscenza sua al mio ’ntelletto; 
  • e chinando la mano a la sua faccia, 
  • rispuosi: «Siete voi qui, ser Brunetto?». 
  •       E quelli: «O figliuol mio, non ti dispiaccia 
  • se Brunetto Latino un poco teco 
  • ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia». 
  •       I’ dissi lui: «Quanto posso, ven preco; 
  • e se volete che con voi m’asseggia, 
  • faròl, se piace a costui che vo seco». 
  •       «O figliuol», disse, «qual di questa greggia 
  • s’arresta punto, giace poi cent’anni 
  • sanz’arrostarsi quando ’l foco il feggia. 
  •       Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni; 
  • e poi rigiugnerò la mia masnada, 
  • che va piangendo i suoi etterni danni». 
  •       I’ non osava scender de la strada 
  • per andar par di lui; ma ’l capo chino 
  • tenea com’uom che reverente vada. 
  •       El cominciò: «Qual fortuna o destino 
  • anzi l’ultimo dì qua giù ti mena? 
  • e chi è questi che mostra ’l cammino?». 
  •       «Là sù di sopra, in la vita serena», 
  • rispuos’io lui, «mi smarri’ in una valle, 
  • avanti che l’età mia fosse piena. 
  •       Pur ier mattina le volsi le spalle: 
  • questi m’apparve, tornand’io in quella, 
  • e reducemi a ca per questo calle». 
  •       Ed elli a me: «Se tu segui tua stella, 
  • non puoi fallire a glorioso porto, 
  • se ben m’accorsi ne la vita bella; 
  •       e s’io non fossi sì per tempo morto, 
  • veggendo il cielo a te così benigno, 
  • dato t’avrei a l’opera conforto.  
  •       Ma quello ingrato popolo maligno 
  • che discese di Fiesole ab antico, 
  • e tiene ancor del monte e del macigno, 
  •       ti si farà, per tuo ben far, nimico: 
  • ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi 
  • si disconvien fruttare al dolce fico. 
  •       Vecchia fama nel mondo li chiama orbi; 
  • gent’è avara, invidiosa e superba: 
  • dai lor costumi fa che tu ti forbi. 
  •       La tua fortuna tanto onor ti serba, 
  • che l’una parte e l’altra avranno fame 
  • di te; ma lungi fia dal becco l’erba. 
  •       Faccian le bestie fiesolane strame 
  • di lor medesme, e non tocchin la pianta, 
  • s’alcuna surge ancora in lor letame, 
  •       in cui riviva la sementa santa 
  • di que’ Roman che vi rimaser quando 
  • fu fatto il nido di malizia tanta».  
  •       «Se fosse tutto pieno il mio dimando», 
  • rispuos’io lui, «voi non sareste ancora 
  • de l’umana natura posto in bando; 
  •       ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora, 
  • la cara e buona imagine paterna 
  • di voi quando nel mondo ad ora ad ora 
  •       m’insegnavate come l’uom s’etterna: 
  • e quant’io l’abbia in grado, mentr’io vivo 
  • convien che ne la mia lingua si scerna. 
  •       Ciò che narrate di mio corso scrivo, 
  • e serbolo a chiosar con altro testo 
  • a donna che saprà, s’a lei arrivo.  
  •       Tanto vogl’io che vi sia manifesto, 
  • pur che mia coscienza non mi garra, 
  • che a la Fortuna, come vuol, son presto. 
  •       Non è nuova a li orecchi miei tal arra: 
  • per• giri Fortuna la sua rota 
  • come le piace, e ’l villan la sua marra». 
  •       Lo mio maestro allora in su la gota 
  • destra si volse in dietro, e riguardommi; 
  • poi disse: «Bene ascolta chi la nota». 
  •       Né per tanto di men parlando vommi 
  • con ser Brunetto, e dimando chi sono 
  • li suoi compagni più noti e più sommi. 
  •       Ed elli a me: «Saper d’alcuno è buono; 
  • de li altri fia laudabile tacerci, 
  • ché ’l tempo sarìa corto a tanto suono. 
  •       In somma sappi che tutti fur cherci 
  • e litterati grandi e di gran fama, 
  • d’un peccato medesmo al mondo lerci.

 


Condividi su Facebook

15.02.2007 Spataro

Andreotti

Segui le novità di Civile.it via Telegram oppure via email: (gratis Info privacy)

    






"La nostra società non ha più i pericoli di una volta, ma rischi, perché sappiamo cosa fare davanti ai pericoli" - prof. Elena Esposito, Bologna








innovare l'informatica e il diritto


per la pace