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Avvocati    

No avvocati e dipendenti insieme: OUA alla Corte Costituzionale

L’Organismo unitario alla Corte Costituzionale per difendere gli avvocati

L’Oua ha depositato, unica rappresentanza dell’avvocatura, un’articolata memoria nel procedimento pendente davanti alla Consulta per difendere l’incompatibilità tra avvocati e pubblici dipendenti.

La costituzionalità del principio sancito dalla legge 339/2003 è stata contestata dal giudice del lavoro di Napoli.

L'Oua si è battuta per anni affinché venisse eliminata la possibilità per i dipendenti pubblici con contratto a tempo parziale di iscriversi all'albo forense e di esercitare la professione. Proprio la legge 339/2003 ha sancito il successo di quella battaglia politica, condotta spesso in solitudine, e intrapresa all'indomani dell'approvazione della del Finanziaria 1997 (legge 662/96) che introdusse il principio degli avvocati part-time.

Oggi la partita si è spostata dalle Aule parlamentari a quella della Corte costituzionale e l'Organismo unitario è ancora in prima fila per evitare che prevalgano i miopi interessi di chi continua a disconoscere la rilevanza costituzionale della professione forense.

03.03.2006 - pag. 29462 print in pdf print on web

A

ALLA ECCELLENTISSIMA CORTE COSTITUZIONALE - Roma -

Nel giudizio di legittimità costituzionale n. RG ____________ instaurato dal Tribunale di Napoli, Giudice del Lavoro, Pellecchia, con ordinanza del 28 settembre 2005 INTERVIENE l’Organismo Unitario dell’Avvocatura (OUA), con sede in Roma, via G. Belli, 27, in persona del Presidente p.t. Avv.to Michelina Grillo rappresentato e difeso, dagli avv. ti Prof.ri Mario Bertolissi, Piero Sandulli e dall’Avv. Roberto Zazza presso lo studio del quale ultimo in Roma, Via Cola di Rienzo n. 28, tutti el.mente dom.ti in virtù di procura in calce del presente atto e si costituisce depositando la presente

MEMORIA In punto di fatto Con ordinanza del 28 settembre 2005, il Tribunale di Napoli, Giudice del Lavoro, Pellecchia, nel procedimento n. 7618/2003, sollevava, dinnanzi a codesta Eccellentissima Corte, questione di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 recante “Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione forense”, nella parte in cui – in presunta violazione degli articoli 3 e 4 della Costituzione - prescrivono, ponendosi come lex specialis, la disapplicazione delle disposizioni di cui all’articolo 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 e l’opzione tra il mantenimento del rapporto di impiego pubblico e l’iscrizione all’albo degli avvocati, pena, in mancanza di scelta, la cancellazione d’ufficio dall’albo. Nel presente giudizio ritiene di essere legittimato all’intervento l’OUA, quale organo del Congresso Nazionale Forense, che si costituisce, per rappresentare e tutelare gli interessi giuridici appartenenti alla classe forense nelle sue vesti istituzionalizzate, al fine di veder rigettata la questione di legittimità per le seguenti ragioni. In punto di diritto 1. Dell’intervento dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura. L’Organismo Unitario dell’Avvocatura (di seguito in acronimo O.U.A.) è Ente esponenziale dell’intero ceto dagli Avvocati italiani e come tale portatore dei loro interessi collettivi. L’O.U.A. è pertanto legittimata ad intervenire nel presente giudizio. La legittimazione dell’O.U.A. origina innanzitutto dalla storia dell’Avvocatura italiana della quale nell’attualità realizza sempre presente aspirazione all’unità. In breve sintesi fin dall’introduzione nel 1806 del code Napoleon nella Repubblica Cisalpina; con la conseguente estensione alla stessa del sistema ordinistico (cfr nel 1810 nel Regno Muratiano); la dinamica del ceto forense si è articolata, nel suo processo di professionalizzazione, su due linee spesso configgenti; il reticolo ordinistico appunto e il libero associazionismo. Questa dinamica trovava profonda radice nella natura stessa della professione forense e nei processi storico ed economici. Sotto il primo profilo l’Avvocatura ha indubitabilmente ed indiscidibilmente in se, da un lato la funzione pubblicistica del concorrere alla realizzazione dell’ordinamento giuridico, dall’altro è pur tuttavia una libera professione nella quale si realizza la funzione privatistico-economica del professionista. Quanto al profilo storico-politico gli Avvocati in quanto Ordine sono stati dal legislatore connessi al processo di realizzazione dello stato liberale, avente cardine la supremazia della legge formale e più oltre ai processi di unificazione nazionale. La vita, quindi, dell’Avvocatura è un intrecciarsi tra queste due linee dialettiche all’interno e all’esterno del ceto. A riprova si consideri che soltanto con RDL 1578/33 si ottenne la costituzione stabile di una struttura apicale del sistema ordinistico (e contemporaneamente l’assorbimento della professione del sistema corporativo). Contemporaneamente assolutamente costante, di fronte alla resistenza degli ordini territoriali alla costituzione di una struttura nazionale, si fecero più tentativi da parte del ceto in forma associata di giungere finalmente alla costituzione di una rappresentanza nazionale. Nel 1947, si tenne in Firenze il I° Congresso Nazionale Giuridico-Forense del periodo che possiamo definire costituzionale, e naturalmente cominciò con l’ennesima richiesta da riforma della legge professionale; istanza a tutt’oggi inevasa. I congressi nazionali quindi nella sempre rispettata cadenza biennale rappresentavano e rappresentano la massima espressione del ceto forense per essere i suoi delegati liberamente eletti con voto segreto e rispetto delle minoranze sia territoriali che d’opinione. Se però il “sistema congressuale” per la sua modalità di formazione e per la sua continuità rappresentarono e rappresentano il punto massimo della formazione della volontà collettiva del ceto Forense; tuttavia le dinamiche tipiche della società moderna e quale si andavano configurando dalla fine degli anni 60° (i tre trattati della Comunità Europea, il decollo dell’economia nazionale, la crisi di redistribuzione del reddito, esplorazione dei nuovi diritti…) rendevano tale strumento infunzionale alle esigenze di una presenza “quotidiana” ed operativa di confronto/scontro con il potere legislativo, l’esecutivo, l’ordine giudiziario e le altre formazioni sociali. Si aprì dunque ben presto e di nuovo il dibattito all’interno dell’Avvocatura per la realizzazione di una struttura unitaria che assumesse in modo stabile l’operativa rappresentanza dell’Avvocatura italiana nell’ambito socio-politico, completando in modo possibilmente armonico quella rappresentatività che fin all’ora era stata in supplenza esercitata del Consiglio Nazionale Forense e dal sistema ordinistico; in virtù però di una legge dello stato che se da un lato li “proteggeva” in relazione alle funzioni pubblicistiche dell’Avvocatura, ne limitava oggettivamente le capacitò di raccogliere operativamente la sfida di rappresentanza di fronte ai processi di cambiamento della società e del sistema giudiziario. Il XXIII Congresso Nazionale Forense di Maratea del 1995 approvò il nuovo statuto prevedendo: “il Congresso Nazionale Forense rappresenta l’Avvocatura italiana a mezzo dell’Organismo Unitario” … (art. 1 Statuto di Maratea), “Sono organismi permanenti ed emanazione del Congresso: l’Organismo unitario e la Giunta Centrale dell’Avvocatura” (art. 7, n. 1 Statuto di Maratea), “l’Organismo Unitario è la rappresentanza politica unitaria dell’Avvocatura italiana e ne esprime gli orientamenti, opera in collaborazione con il Consiglio Nazionale Forense e con la Cassa di Previdenza”… (art. 8, n. 1 Statuto di Maratea). L’Avvocatura finalmente aveva uno strumento di rappresentanza degli interessi che la disincagliava dalle strettoie di una rappresentanza istituzionale e disciplinare e da dimensioni di sindacalismo economico-previdenziale ormai coperto dalla Cassa di previdenza. Era però questo un processo che doveva temprarsi e verificarsi alla prova del fuoco della prassi. Una prima prova di verifica si è avuta al Congresso di Verona del 2002, con l’approvazione di modifiche statutarie - tuttora vigente - e soprattutto di un preambolo che vale a chiarire come il Congresso Nazionale Forense e per esso l’O.U.A. - sia legittimato in quanto tale alla più ampia ed articolata interlocuzione con i poteri e le istituzioni dello Stato e con tutti i protagonisti della vita politica e sociale; il mantenimento ed il rafforzamento delle istituzioni forensi quali irrinunciabili garanzie non solo dell’autonomia dell’ordine forense, ma anche delle qualità morali e delle capacità professionali della categoria; consenta all’avvocatura di misurarsi con ampio confronto sui problemi e sugli interessi di carattere anche generale e quindi di esprimere il proprio autonomo pensiero propositivo. “Il Congresso Nazionale Forense è l’assemblea generale dell’Avvocatura italiana e rappresenta il momento di confluenza di tutte le sue componenti, nel rispetto della loro autonomia e determina gli indirizzi generali dell’Avvocatura, formulando proposte sui temi della giustizia e della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini nonché sulle questioni che riguardano la professione forense” (art. 1 Statuto di Verona). “Il Consiglio Nazionale Forense e l’Organismo Unitario, nell’ambito delle rispettive competenze, realizzano gli indirizzi deliberati dal Congresso, operando in piena autonomia ed in constante consultazione reciproca e con le Istituzioni ed Associazioni Forensi” (art. 2 Statuto di Verona). L’O.U.A. pertanto non si limita a rappresentare interessi diffusi o adespoti, ma realizza un ente esponenziale che rappresenta la sintesi degli interessi dell’intero ceto forense. Proprio nel 2004 l’O.U.A. ha pubblicamente celebrato il suo decennale così realizzando uno degli elementi che la costante giurisprudenza del Consiglio di Stato identifica come requisiti della legittimazione degli enti esponenziali, e cioè la continuità. Quanto al requisito della rappresentatività deve considerarsi un fatto notorio in senso tecnico dal momento che lo svolgimento dei congressi e la loro partecipazione sono oggetto sempre dell’interesse della stampa e delle elezioni territoriali dei delegati, del loro numero e della dialettica interna del Congresso finalizzata alla formazione della volontà unitaria del ceto forense. Superfluo dire dei quotidiani interventi riportati dalla stampa non solo di settore sul processo di formazione delle leggi. Le procedure statutarie di elezioni danno però conto non solo della rappresentatività, ma anche della democraticità di procedure di formazione della volontà collettiva (il che spesso non può dirsi di molte associazioni pur sovente ritenute legittimate ai giudizi). La documentazione allegata da conto della fondatezza dell’argomentare. Superato riteniamo il tema della legittimazione processuale dell’O.U.A. resta da esaminare lo specifico tema dell’intervento davanti a questa Ecc.ma Corte che come noto è una “porte etroite”. Riteniamo che quello dell’O.U.A. all’esito del giudizio non sia un interesse mediato o di mero fatto. È di tutta evidenza infatti che l’interesse collettiva non meramente fattuale portato dall’O.U.A. sia quello di non vedere non tanto alluvionato il proprio albo, il che pure importa e non poco; ma soprattutto di vedere degradato il proprio diritto/dovere di difesa, di rango costituzionale; da un sistema “irragionevole” quale quello che risulterebbe dalla pronuncia di ablazione della norma impugnata. Valuti oltre la Corte come la difesa della natura incidentale del procedimento, che fino ad oggi ha ispirato l’orientamento della Corte Ecc.ma, in punto di intervento debba contemperarsi con la tematica degli enti esponenziali e dei diritti collettivi e diffusi che non possono più restare fuori proprio davanti a quella Corte in cui si discute non tanto e non solo con spirito causistico quanto e più di diritto in movimento. ************* 2. In via preliminare Erronea identificazione della disposizione censurata. Violazione del disposto dell’articolo 23, l. 87/1953. Illogicità della motivazione e conseguente dimostrazione della non rilevanza della questione. Nell’ordinanza di remissione degli atti del procedimento a codesta Eccellentissima Corte, il giudice a quo ritiene esistente la rilevanza e non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale proposta nei confronti degli articoli 1 e 2 della l.339/2003 per contrasto con gli articoli 3 e 4 Cost. e ne espone le doverose motivazioni. Egli testualmente dichiara: “ritiene questo giudicante che appaiono sussistere dubbi di illegittimità degli articoli 1 e 2 cit. - vale a dire artt. 1 e 2 della legge 339/2003 – con alcuni principi costituzionali. Il contrasto riguarderebbe anzitutto l’art. 3 Cost. e ciò sotto alcuni profili”. Nel tratteggiare le motivazioni, tuttavia, il giudice incorre in un vizio logico che inficia la legittimità – determinando l’inammissibilità – dell’ordinanza. Egli sostiene, infatti, l’esistenza di un’ipotetica disparità di trattamento determinata dagli articoli su citati, ma al momento di dimostrarla inopinatamente si riferisce ad una disposizione diversa ed inconferente e precisamente all’articolo 3 r.d.l. 1578/1933. Richiamando il comma 3 dell’art. 3 citato, il Tribunale afferma che sussiste una disparità di trattamento tra i dipendenti pubblici che rivestano la qualifica di professori degli istituti secondari dello Stato e che sono legittimati a svolgere la professione forense e gli altri dipendenti pubblici ai quali è invece negata tale facoltà. Ammesso e non concesso che siffatta disposizione manifesti profili di incostituzionalità, l’autorità giurisdizionale remittente era tenuta ex lege a sollevare questione di legittimità costituzionale della stessa e non degli articoli 1 e 2 della l.339/2003, i quali sono totalmente estranei alla fattispecie descritta. La differenziazione tra dipendenti pubblici, docenti nelle scuole medie superiori, che l’articolo 3, comma 3, del r.d.l. 1578/1933 esonera da incompatibilità con l’espletamento della professione forense e ai quali non richiede neppure la scelta tra il regime del tempo pieno o di quello ridotto (come invece prescritto dall’articolo 1, comma 56, della l.662/1996) e altri dipendenti pubblici, impediti di esercitare l’avvocatura, è stata compiuta ed è contenuta nell’immutato comma 3 della citata legge e non nella l. 339/2003. Il giudice, pertanto, non solo viola la disposizione dell’articolo 23 della l.87/1953, che impone, ai commi 1 e 3, l’indicazione delle disposizioni della legge o dell'atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, viziate da illegittimità costituzionale: ma nel caso di specie prospetta l’illegittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge 339/2003 contestando una disparità di trattamento che è irrilevante ai fini della soluzione del caso sottoposto al giudice di prime cure. È netto il principio contenuto nella sentenza 442/1993 di codesta Eccellentissima Corte, nella quale si richiede la necessaria indicazione del – corretto – termine di raffronto nel giudizio di uguaglianza. Il riferimento all’articolo 3, comma 3, del r.d.l. 1578/1933, ancora vigente laddove consente lo svolgimento di attività professionale a soggetti che possono essere legati ad una p.a. con un rapporto a tempo pieno, è aberrante ed irrilevante per la risoluzione della controversia sottoposta al giudice del lavoro, in quanto non vi è chi non veda che nella fattispecie viene in rilievo l’applicazione delle disposizioni contenute nella l.662/1996, articolo 1, commi 56, 56 bis e 57, ed esclusivamente della loro inosservanza da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri ci si doleva nel caso di specie. Tale vizio logico non solo realizza una causa di inammissibilità della questione (sulla inammissibilità di questioni alternative e sulla ulteriore inammissibilità di questioni ‘generiche’, di quelle cioè che non individuino in modo puntuale e specifico la norma rilevante e censurata, ex pluribus: Corte cost., 169/1982; 170/1982; 204/1983; 506/1989; 187/1998), ma evidenzia la confusione e la contraddittorietà della pronuncia dell’autorità giurisdizionale nel rappresentare i presunti motivi di illegittimità della normativa de qua. 2 bis. L’art. 23, 2° 487/53 sembra essere stato violato anche sotto altro profilo dovendosi e potendosi definire il giudizio indipendentemente dalla questione di costituzionalità, per altro illegittimamente dedotta nel giudizio stesso. Il giudizio de quo risulta, infatti, introdotto con ricorso depositato il 3/07/03, vigente il comma 56 della legge 662/96, che consentiva al ricorrente Brandi, dipendente dell’Avvocatura dello Stato, di poter esercitare la professione forense; tale comma modificava l’art. 58 l. 29/93,eliminando l’ipotesi di incompatibilità di cui all’art. 3 RDL 1578/33 per i pubblici dipendenti ammessi al part-time (cfr. comma 57, Lg 662/96). Il comma 58 della legge prefata prevede una procedura automatica di trasformazione del rapporto di lavoro correlata; alla presentazione della domanda, all’indicazione dell’eventuale attività nuova e diversa da svolgersi ed il decorso del termine di 60 gg. dalla domanda stessa. L’Amministrazione non ha alcun potere autorizzatorio, può però negare la trasformazione del rapporto ove riscontri un conflitto di interessi tra le due attività del dipendente; seguono altre ipotesi limitative connesse alla organizzazione del servizio pubblico. Questo il quadro normativo rispetto al quale il ricorrente Brandi; lamentando, che l’Avvocatura dello Stato avesse illegittimamente negato l’autorizzazione alla trasformazione del rapporto, a motivo del “conflitto di interessi” tra il rapporto di lavoro e l’esercizio della professione forense; chiedeva al Giudice del lavoro di Napoli “dichiararsi l’avvenuta trasformazione del rapporto di dipendenza di dipendenza dell’Avvocatura da tempo pieno in rapporto a tempo parziale” - oltre i danni e le spese. Questi il petitum e la causa petendi originari. In pendenza di lite l’art. 1 della sopravvenuta Lg 25/11/03, n. 339 dichiarò inapplicabile i comma 56, 56bis e 57 Lg. 662/96 limitatamente agli Albi degli Avvocati, ripristinando l’art. 3 RDL 1578/33 nella parte già ablata. Di tutta evidenza la lite come proposta poteva definirsi con la declaratoria di cessazione della materia del contendere, o con sentenza ai soli fini della liquidazione dei danni medio tempore maturati e delle spese; previo un mero accertamento sulla sussistenza o meno del potere autorizzatorio a mezzo dell’amministrazione e della legittimità o meno della motivazione secondo il Testo del comma 58 che restava ed è in vigore quale norma generale procedimentale. La questione di costituzionalità viene proposta, in corso di lite e dopo l’entrata in vigore della Lg 339/93 dall’ADIP, associazione di categoria, in relazione non al comma 58, ma agli artt. 1 e 2 l. 339/93 in quanto modificativi dei commi 56, 56bis, 57 l.662/96; questione che non ha alcuna rilevanza ai fini della definizione della lite così come proposta. Ci si deve, inoltre, porre la questione se l’intervento dell’ADIP fosse ammissibile. In realtà l’intervento è tardivo ex art. 419 e 418 c.p.c. ed irrituale ex art. 105 c.p.c.. L’intervento è tardivo essendo stato effettuato con memoria depositata all’udienza di comparizione del 20/12/04 e non invece nel termine di 10gg. prima dell’udienza con istanza contestuale di fissazione di una nuova udienza (per tutte conformi Cass. 22/03/84 n. 1898, in Giur. It. 85, I, 1, 510; Cass. Sez. lav. 04/10/04 n. 19834; Cass. Sez. III, 11/06/03, n. 9374). L’intervento è inoltre inammissibile per violazione dell’art. 105 c.p.c. in quanto, principale ed autonomo introduce in giudizio un tema del tutto nuovo che non riguarda minimamente la domanda originaria, né la parte resistente che ha preso e motivato il provvedimento impugnato senza alcun riferimento alla sopravvenuta legge 339/03 (in tal senso anche la giurisprudenza più permissiva; cfr Cass. 20/04/94, n. 3748). La questione di costituzionalità pertanto non poteva essere delibata dal Giudice del merito anche in quanto introdotta irritualmente nel giudizio, da soggetto non legittimato. 3. Nel merito a) Disomogeneità tra le funzioni proprie della categoria degli avvocati e quelle pertinenti ad altre professioni liberali. Affermazione della peculiarità del ruolo della figura dell’avvocato. Nella prima delle argomentazioni prospettate dal giudice a quo si stigmatizza l’impossibilità determinata dall’applicazione della legge 339/2003 di svolgere attività “part time” all’interno della p.a. e contemporaneamente attività professionale come sintomo della violazione dell’articolo 3 Cost, per disparità di trattamento rispetto ad altre professioni liberali. In realtà, non solo l’assimilazione di fattispecie disomogenee costituisce il vero esempio di violazione del principio di uguaglianza, ma per di più se si accogliesse l’interpretazione della vicenda offerta dal Tribunale si cadrebbe nell’aporia logica che è magistralmente prospettata dalle seguenti puntualizzazioni: “Come accertare, mancando una norma <> che identifichi la fattispecie in esame (da parte dell’interprete), quell’indispensabile omogeneità giuridica fra i due termini di comparazione, che rappresenta il tratto peculiare del giudizio di eguaglianza nei confronti della valutazione di giustizia? Come stabilire quale delle due distinte discipline <> debba formare l’oggetto del sindacato di corrispondenza all’articolo 3 I comma?” (così, L. PALADIN, Il principio costituzionale d’eguaglianza, Milano, 1965, p. 200). In altre parole, quale delle due discipline (reputandosi la legge 339/2003 come una atto ripristinatorio della situazione giuridica antecedente al 1996, facendo il legislatore espresso riferimento, all’articolo 1, ai limiti e ai divieti di cui al r.d.l. 1578/1933, con la conseguenza di impedire l’utilizzo del brocardo interpretativo “Abrogata lege abrogante non reviviscit lex abrogata”) incidenti in materia di status degli avvocati è quella che deve porsi come oggetto del sindacato di costituzionalità? È quella che, in altre parole, configurerebbe la censurata disparità di trattamento: il r.d.l. 1578/1933, sull’ordinamento della professione forense, le cui previsioni uniformano l’intera categoria degli avvocati al principio dell’unicità ed esclusività dell’esercizio della professione? Oppure la l. 662/1996, “Misure di razionalizzazione della finanza pubblica”, la quale, all’articolo 1, commi 56,56 bis, 57, non solo determina la creazione di due distinte fasce di professionisti (definibili come ‘avvocati tout court’ e ‘avvocati pubblici dipendenti’), ma all’interno del secondo gruppo introduce l’ulteriore differenziazione irragionevole tra avvocati dipendenti pubblici a tempo pieno e avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale ridotto? È la legge 662/1996 che introduce una irragionevole disparità di trattamento laddove, invece che dichiarare come regola generale e egalitaria che “tutti i dipendenti pubblici sono legittimati a svolgere anche la professione forense” (analogamente al principio generale, pur di segno opposto, sancito dal r.d.l. 1578/1933, che disponeva un’incompatibilità tra professione legale e rapporto di servizio pubblico) prescrive al contrario che “solo i dipendenti pubblici a tempo parziale possono svolgere la professione forense”. Qualora si fosse inteso adottare una regola diversa da quella stabilita nel r.d.l. 1578 cit., si sarebbe dovuto prescrivere che a tutti i dipendenti pubblici era consentito di iscriversi all’albo (a prescindere se con rapporto di servizio a tempo pieno o parziale) ovvero, in subordine, che si abrogava la categoria dei professionisti dipendenti pubblici a tempo pieno. Si contraddistingue, infatti, per la ragionevolezza delle scelte effettuate l’intervento legislativo della l. 662/1996 che, rovesciando la regola previgente (divieto della professione liberale ai dipendenti della p.a.) lascia intatta l’eccezione alla stessa (compatibilità tra professione forense e titolarità di una cattedra universitaria o di scuola media superiore), la quale viene a rappresentare un’anomalia ancora meno accettabile, essendo stata ribaltata l’impostazione del sistema? O il principio di buon andamento della p.a., stabilito dall’articolo 97 Cost., è tendenzialmente sempre pregiudicato dallo svolgimento di una doppia attività lavorativa (e questo è uno dei profili che si ricavano dalle previsioni del rdl 1578) oppure se, come sostenuto anche da questa Eccellentissima Corte nella pronuncia 189/2001, è stato introdotta una nuova filosofia organizzativa, perché non si è ragionevolmente esteso a tutti i dipendenti pubblici il regime proprio dei soggetti indicati nell’articolo 3, comma 3, del r.d.l. 1578/1933, cioè dei professori e assistenti delle università e degli altri istituti superiori e i professori degli istituti secondari dello Stato? Se in base al r.d.l. 1578 si configuravano due categorie (avvocati e avvocati professori di università e di scuole superiori) con l’esistenza di un principio e di un’eccezione, ora si avrebbero tre categorie (avvocati, avvocati dipendenti pubblici part time, avvocati dipendenti pubblici a tempo pieno: professori universitari e professori di scuole superiori) e un principio e due eccezioni, ovvero tre eccezioni? Come si nota, la ragionevolezza e la chiarezza sembrano difettare nel sistema creato dalla l.662/1996. In secondo luogo, anche a tacere di quella ricostruzione dottrinale secondo cui in seguito alla successione alla lex specialis del 1933 della lex generalis del 1996 si siano determinate difficoltà interpretative e di armonizzazione tra le due discipline – pur essendo nozione teoricamente pacifica che “legi speciali per generalem non derogatur” –, appare evidente come il legislatore del 2003 abbia inteso ribadire, attraverso una nuova legge ad hoc, la prevalenza dei principi contenuti nella legge sull’ordinamento dell’avvocatura del 1933 rispetto a ogni ipotesi derogatoria non espressamente indirizzata alla classe forense. Si sono così riaffermate con enfasi non solo la non assimilabilità della professione forense ad altri tipi di attività professionale liberale, ma altresì l’irriducibilità della natura della professione legale alle caratteristiche di un rapporto di servizio che comporta (ancora sebbene in forme attenuate rispetto al passato) soggezione gerarchica, fedeltà alla nazione (e non solo al cliente, tranne nei casi in cui il cliente coincida con la p.a.) e mancanza di esclusività del rapporto fiduciario. Dato che, come è insegnamento di codesta Eccellentissima Corte, una legge è dichiarata incostituzionale non quando possa dare luogo a interpretazioni costituzionalmente illegittime, ma quando essa non possa ricevere alcuna interpretazione costituzionalmente legittima, quale delle due discipline citate (l.1578/1933-l.339/2003 e l.662/1996) incorre in un più ampio dubbio di aderenza ai principi costituzionali? Non è revocabile in dubbio che, antecedentemente all’adozione della legge ‘omnibus’ 662/1996, il regime giuridico degli avvocati si fondasse su un principio di carattere generale cristallizzato nella incompatibilità tra una funzione retribuita a carico del bilancio pubblico e l’esercizio della professione forense. Le eccezioni contenute nel comma 3 dell’articolo 3, r.d.l. 1578/1933 – del tutto ragionevoli, poiché da un lato relative a soggetti dotati di ampia autonomia decisionale in ordine alle modalità di esercizio delle proprie funzioni pubbliche (professori di università e di alte istituzioni di educazione e professori di scuole medie superiori), dall’altro concernenti soggetti che riservavano al proprio cliente unico (l’ente) la totale dedizione delle competenze professionali, facendo coincidere quei profili di garanzia del più ampio diritto di difesa e di indipendenza nell’esercizio delle abilità forensi che rappresenta il nucleo della garanzia del diritto di difesa in senso tecnico – rispondevano all’auspicio espresso dalla Commissione incaricata di riferire sul progetto di legge, che sarebbe poi divenuto il primo ordinamento forense italiano nel 1874. Nella relazione si precisava che, “se non si vuole teoricamente ammettere la qualificazione di pubblico ufficio attribuita alle due professioni, di avvocato e di procuratore, nel senso volgarmente accolto, non si potrà almeno sconoscere che il necessario rapporto e contatto di chi le esercita coll'ordine giudiziario, e col ministero pubblico, rappresentante presso i tribunali del potere esecutivo, non dia origine e causa al bisogno di provvedere alla indipendenza del ministero della difesa e della assistenza legale dalla autorità costituita, essendo appunto essenzialissima condizione della buona e utile difesa il sentirsi e il sapersi autonoma e indipendente”, evidenziando inoltre la necessità di una “perfetta indipendenza amministrativa e disciplinare del sodalizio da qualunque supremazia che quella non sia della legge” (Relazione al Parlamento, 8 giugno 1874, n.1938). Il legislatore apprezzò come carattere qualificante la natura dell’avvocatura e l’esercizio della professione forense, finalizzato al più completo ed adeguato patrocinio del cliente, l’indipendenza del soggetto (assicurata anche nel caso di avvocato appartenente agli uffici legali degli enti pubblici dalla esclusiva titolarità nella individuazione e nella scelta degli strumenti di carattere giuridico da utilizzare per affrontare i casi sottoposti). Nella legge 662/1996, che liberalizza l’iscrizione agli albi professionali dei dipendenti della p.a. con rapporto a tempo parziale ridotto, tale profilo specifico per la categoria degli avvocati non risulta non solo valorizzato ma neppure considerato, essendo state confuse all’interno di una unica disciplina generica ed onnicomprensiva situazioni che sono irriducibili ad una ratio comune. Ciò che emerge dai due provvedimenti normativi specificamente destinati alla disciplina dell’ordinamento forense (r.d.l. 1578/1933 e l.339/2003) è una ratio confliggente con quella che emerge dalla l.662/1996 e, trattandosi di norma generale, essa dovrebbe porsi come recessiva nei confronti delle norme speciali dettate per la categoria degli avvocati. b) Insussistenza di disparità di trattamento tra pubblici dipendenti ex art. 2, comma 1, legge 339/2003. Ragionevolezza delle scelte compiute dal legislatore in considerazione della durata dei processi. Non si vede come poi possa rappresentarsi una disparità di trattamento laddove il giudice a quo, a pagina 5 dell’ordinanza di rimessione, sembra sostenere esservi contrasto con l’articolo 3 Cost. tra la situazione in cui verserebbero i dipendenti della p.a. che aspirassero all’iscrizione all’albo degli avvocati successivamente all’entrata in vigore della l.339/2003 (vale a dire, incompatibilitità tra i due ruoli) e i dipendenti della p.a. collocatisi “part time” e iscritti all’albo prima dell’entrata in vigore della legge citata, per i quali è stato fissato un termine per procedere alla scelta. Se quanto supposto corrisponde alla censura che si sarebbe inteso formulare, appare invece ragionevole quanto il legislatore del 2003 ha predisposto. Dall’articolo 2 della legge 339 emerge la voluntas legis di ripristinare, dopo un periodo durato sette anni, la normativa precedente, che appare maggiormente idonea a servire il diritto di difesa sancito dall’articolo 24 Cost. Se la ratio che ha ispirato il legislatore appare verosimilmente quella di conservare come regola generale per la professione forense - in precipua considerazione dello specialissimo ruolo svolto dall’avvocatura per la realizzazione del diritto di difesa tecnica del cliente - la più ampia autonomia e la più completa dedizione allo stesso (che verrebbe ridotta dalla simultanea copertura di un ufficio pubblico) nella prestazione del proprio ministero, le modalità di restaurazione dell’ordinamento statutario in vigore per oltre sessant’anni anni richiedevano - qui sì pena la irragionevolezza delle scelte legislative - il bilanciamento di due ordini di interessi: da un lato quelli (secondari, ma pur sempre esistenti) dei pubblici dipendenti che avessero destinato all’esercizio della professione forense investimenti finanziari per la predisposizione di locali da adibire ad ufficio con stipulazione, ad esempio, di contratti di locazione, di contratti di compravendita di materiale documentale e supporto informatico, di contratti di opera o di lavoro dipendente con personale di segreteria e l’assunzione di obbligazioni che, se risolte ex lege ex abrupto, avrebbero determinato, innanzitutto, la violazione del principio dell’affidamento, tutelato decisamente anche in sede comunitaria: si veda, per tutte, sentenza C.G.C.E. 17 aprile 1997, De Compte c. Parlamento, in causa C-90/95, in Raccolta 1997, p.I-1999; dall’altro, gli interessi primari dei clienti che si fossero avvalsi dei servigi del pubblico dipendente/avvocato e che avessero scelto intuitu personae un certo professionista per la tutela delle proprie posizioni giuridiche di fronte all’evenienza di dover rinunciare al patrocinio non per mutua decisione bensì per una repentina determinazione legislativa. Nella ulteriore considerazione che la durata media ad esempio dei processi penali - secondo quanto riportato nella relazione del Procuratore Generale della Cassazione dott. Favara letta all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2002 - è passata da 1451 giorni del 2000 a 1491 nel 2001 (circa 4 anni) e che la durata dei procedimenti civili è ancora maggiore, il legislatore del 2003, attraverso una disciplina di natura transitoria, accordando al pubblico dipendente che svolgesse la professione di avvocato un termine di 36 mesi per l’opzione diretta al mantenimento del rapporto di servizio, ha inteso assai ragionevolmente assicurare tanto al professionista quanto innanzitutto al cliente la possibilità di addivenire ad una sorta di “commodus discessus” in vista della auspicabile conclusione del rapporto cliente-professionista conseguente alla eventuale vicenda processuale nella quale questi fosse stato impegnato. A rafforzare questa chiara scelta di tutela degli interessi del cliente, l’articolo 2, al comma 4, attribuisce al pubblico dipendente, che avesse scelto per senso di responsabilità verso i propri clienti di proseguire nell’esercizio della professione forense, il diritto alla riammissione in servizio per 5 anni a partire dal momento di cessazione dell’impiego pubblico. Non era ignoto al legislatore, infatti, che secondo la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo la durata ragionevole normale e media di un processo di primo grado sarebbe dovuta identificarsi in tre anni e, quanto ad un processo d’appello o di cassazione, in un anno in più, giungendo a circa 5-6 anni, mentre, per limitarsi all’esempio più eclatante (ma null’affatto peregrino), nella causa B.S. c. Italia n. 44364/98 davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo si accertò che il processo era durato ben 28 anni. Gli otto anni complessivi concessi dal legislatore al dipendente pubblico per rientrare nei ruoli della p.a. a tempo pieno sono pertanto diretti a salvaguardare in primis il diritto di difesa tecnica fiduciaria e personale dei clienti; sono informati alla necessità fisiologica di permettere la conclusione di eventuali processi pendenti e alla logica unitaria (valida diacronicamente tanto per coloro che si fossero iscritti all’albo prima dell’entrata in vigore della l.339/2003 quanto successivamente) di precludere alla generalità dei dipendenti pubblici di dividersi tra la professione legale e il servizio presso la p.a. c) Insussistenza di disparità di trattamento tra avvocati iscritti all’albo prima dell’entrata in vigore della l.662/1996 e avvocati iscritti successivamente. Un punto ulteriore dell’ordinanza di rimessione (trattasi della parte in cui si prospetta una disparità di trattamento), riguarda la diversa disciplina che sarebbe predisposta per gli avvocati iscritti all’albo prima della vigenza della l.662/1996 (per i quali nulla è previsto nella legge 339/2003) e assunti dalla p.a. in seguito e avvocati che, dipendenti della p.a., si siano iscritti all’albo dopo l’entrata in vigore della legge citata (per i quali è prevista un’alternativa: continuare la professione o chiedere la cancellazione dall’albo). L’assenza di un obbligo per i primi, determinato dalla semplice circostanza temporale della preventiva iscrizione all’albo appare come un elemento di illegittimità al giudice a quo. In realtà, anche sotto questo profilo, ciò che non emerge direttamente dalla previsione dell’articolo 2 della l.339/2003 è invece desumibile dal tenore dell’articolo 1 che recita: “Le disposizioni di cui all'articolo 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, non si applicano all'iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni”. Come è insegnamento pacifico, la reviviscenza di una legge abrogata (ammesso che la legge generale l.662/1996 abbia abrogato implicitamente parti del r.d.l. 1578/1933, lex specialis) non è automatica, ma segue all’esplicito richiamo fatto dalla norma successiva. Nel caso di specie la legge 339 cit. espressamente prescrive che, a seguito della disapplicazione delle norme della l.662, restino fermi, in quanto ‘riesumati’, i precetti della legge sull’ordinamento forense e precisamente “i limiti e i divieti”. Ecco che il sospetto di incostituzionalità della legge prospettato dal giudice remittente che scrive: “tali dipendenti - cioè i dipendenti pubblici part-time iscritti all’albo prima dell’entrata in vigore della l.662 - non sarebbero neanche soggetti alla cancellazione d’ufficio in mancanza di opzione nel triennio. Difatti, questi ultimi andrebbero incontro alla cancellazione dall’albo solo nell’eventuale ipotesi in cui, a seguito di una revisione dell’albo, risultasse la loro situazione di incompatibilità. Ogni obbligatoria attivazione del procedimento di cancellazione d’ufficio sarebbe però esclusa per tali soggetti dal testo dell’articolo 2 l.339/2003…”, appare del tutto infondato e persino erroneo laddove paventa “il diverso e deteriore trattamento degli avvocati iscritti all’albo dopo l’entrata in vigore della l. 662”. Per smentire tali conclusioni appare sufficiente, da un lato, soffermarsi sul disposto dell’articolo 2 della l.339, che non contempla, come adombarato dal giudice a quo, alcun tipo di divieto all’obbligatoria attivazione del procedimento di cancellazione d’ufficio e, dall’altro, riferirsi, invece, a due dispozioni del r.d.l. 1578/1933 che in positivo tale procedura prescrivono. “Art. 16. 1 comma. Per ogni Tribunale civile e penale sono costituiti un albo di avvocati e un albo di procuratori. La data dell'iscrizione stabilisce la anzianità per ciascun professionista. 2 comma. Il Consiglio dell'ordine degli avvocati e dei procuratori procede al principio di ogni anno alla revisione degli albi ed alle occorrenti variazioni, osservate per le cancellazioni le relative norme. La cancellazione è sempre ordinata qualora la revisione accerti il difetto dei titoli e requisiti in base ai quali fu disposta l'iscrizione…”. “Art. 37. La cancellazione dagli albi degli avvocati e dei procuratori è pronunciata dal Consiglio dell'ordine, di ufficio e su richiesta del Pubblico Ministero: 1° nei casi di incompatibilità;…”. Come appare chiaro, laddove i consigli ravvisino la presenza di incompatibilità tra l’iscrizione all’albo professionale e la condizione del soggetto dovuta all’assenza - sopravvenuta - dei titoli e requisiti richiesti dalla legge, essi sono tenuti a disporre la cancellazione dall’albo: fattispecie nella quale rientrerebbero quegli avvocati il cui status era conforme alla legge al momento della iscrizione e che, successivamente all’applicazione della l.662, abbiano assunto anche la funzione di dipendenti della p.a. a tempo parziale ridotto. Adottando un’interpretazione letterale dei due articoli risulterebbe non solo sconfessata, ma persino rovesciata, la temuta deteriore condizione dei dipendenti pubblici iscritti all’albo degli avvocati successivamente alla legge 662. Infatti, mentre a questi è riconosciuto un termine pari complessivamente a 8 anni per procedere all’opzione definitiva tra professione forense e rapporto con la p.a., dagli articoli sopra citati sembrerebbe evincersi che il consiglio dell’ordine possa procedere immediatamente alla cancellazione dall’albo di quei soggetti che venissero ad essere ritenuti privi dei requisiti. Appare, d’altra parte, naturale che in virtù dell’applicazione del principio dell’affidamento, cui altresì a livello comunitario si è assegnato un ruolo fondamentale dalla Corte di giustizia, anche per gli avvocati pre-iscrittti e successivamente assunti nei ruoli della p.a. sia da considerarsi ragionevole l’assegnazione di un termine in via analogica per formulare la scelta di o continuare a svolgere una pubblica funzione ovvero di optare per la cessazione della stessa e per l’esercizio esclusivo della professione legale. d) Ragionevolezza dell’esercizio della discrezionalità del legislatore sotto il versante della conformità della disciplina all’articolo 4 Cost. Affrontando le considerazioni espresse dal giudice a quo circa la supposta contrarietà della legge 339/2003 con i principi di tutela della concorrenza emergenti dall’articolo 4 Cost. (e testualmente dal nuovo articolo 117 Cost.), utile parametro interpretativo è rappresentato dalla lettura dei lavori preparatori alla disciplina. Nel prospettare le ragioni che hanno condotto all’elaborazione della legge 339/2003 i proponenti, dopo aver constatato i pericoli per il corretto andamento dell’attività amministrativa e per un’efficace prestazione del ministero legale derivanti dalla commistione di funzioni in capo ad uno stesso soggetto, pericoli creati dalle modifiche apportate dalla l.662/1996, dichiararono che: “Anche se forse in via di interpretazione è possibile ritenere che la norma non estende il lavoro parziale ai <> (peraltro non richiamati nel campo di esclusione), per cui non sarà possibile la figura aberrante del magistrato al 50 per cento iscritto all’albo degli avvocati, si pongono seri problemi per l’inviolabilità del diritto di difesa, per l’avvocato che contemporaneamente è anche cancelliere, ufficiale giudiziario, dipendente non militare degli uffici finanziari o degli istituti previdenziali o dei Ministeri. Si verrà a creare uno strano rapporto di interazione <>, per cui il prestigio del difensore non sarà più basato sulla sua professionalità, ma sul suo potere nell’ambito della amministrazione, con creazione di una clientela al di fuori di una corretta concorrenza professionale ed una commistione di interessi privati in attività pubbliche. Non è possibile che il particolare rapporto fiduciario per l’esercizio del diritto di difesa sia devastato da una normativa siffatta. Il cittadino non potrà non rivolgersi all’avvocato che lavora negli uffici pubblici, peraltro potenziali controparti, e si troverà ad essere assistito da un difensore condizionato oggettivamente dalla sua posizione di pubblico dipendente divaricato da due concorrenziali interessi” (Camera dei Deputati, XIV legislatura, Proposta di legge n.543 d’iniziativa dei deputati Bonito, Leoni, Finocchiaro, Kessler, Carboni, Lucidi, Crucianelli, Grillini, Mancini, Siniscalchi, presentata il 6 giugno 2001). Emerge, pertanto, la più profonda preoccupazione che i limiti posti dalla legge 662/1996 ai commi 56, 56 bis, 58 e 58 bis dell’articolo 1, al fine di garantire lo svolgimento equilibrato ed imparziale dei compiti istituzionali propri del dipendente pubblico insieme alle necessariamente partigiane attività a favore del cliente poste in essere dal professionista non solo si rivelino insufficienti, ma si configurino naturalmente inadeguati, giusta la ontologica irriducibilità delle due figure in capo ad un unico soggetto. È apparso verosimile, infatti, confrontarsi con alcuni problemi che possono sorgere nel caso di conferimento di incarichi professionali a pubblici dipendenti a tempo parziale, anche se trattasi di incarichi non assegnati da pubbliche amministrazioni. Si è pensato, ad esempio, agli effetti negativi che potrebbero presentarsi qualora soggetti che abbiano lavorato per un’amministrazione pubblica utilizzino le conoscenze acquisite in tale occasione per prestare consulenza legale in vicende in cui la stessa amministrazione sia coinvolta, minando la parità di trattamento e incidendo abusivamente e surrettiziamente sulla leale competizione tra professionisti, i quali devono affidarsi solo alle proprie capacità tecniche e non avvalersi di una condizione di privilegio ex lege per attrarre la clientela nel mercato dei servizi legali. CONCLUSIONI Per tutte le ragioni che precedono, la normativa qui impugnata - articoli 1 e 2 della legge 339/2003 - appare ragionevole, coerente e scevra da vizi di costituzionalità. Pertanto, l’Organismo Unitario dell’Avvocatura, ut supra rappresentato e difeso, CHIEDE che l’Eccellentissima Corte adita: in via preliminare: voglia dichiarare l’inammissibilità della questione sollevata con ordinanza di remissione dal Tribunale di Napoli, Giudice del Lavoro, Pellecchia, per l’erronea identificazione della disposizione censurata; in violazione del disposto dell’articolo 23, l. 87/1953 e comunque la non rilevanza della questione proposta per tutti i motivi dedotti.; in via principale: voglia dichiarare l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale prospettata nell’ordinanza di rimessione per presunta violazione degli articoli 3 e 4 Cost.. con riserva di ulteriormente dedurre, redigere memorie e depositare documenti.

(Avv. Prof. M. BERTOLISSI) (Avv. Prof. P. SANDULLI) (Avv. R. ZAZZA)

PROCURA: Delego a rappresentarmi e difendermi nel presente giudizio avanti l’Ecc.ma Corte Costituzionale gli Avv.ti Prof.ri Mario BERTOLISSI del Foro di Padova, Piero SANDULLI del Foro di Roma e l’Avv. Roberto ZAZZA del Foro di Roma, presso lo studio del quale ultimo in Roma, Via Cola di Rienzo n. 28 eleggo domicilio, conferendo loro, anche disgiuntamente ogni facoltà di legge, ed in particolare produrre memorie, depositare documenti, partecipare alle udienze e discutere il ricorso. Con promesso di rato. Roma, lì 28/02/06


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