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Procedura civile    

Corsi e ricorsi storici del C.P.C.

Pubblichiamo con oltre un anno di ritardo (per problemi tecnici) un importante contributo ricevuto via web.

Analisi sull'evoluzione del codice di proceduta civile

21.04.2006 - pag. 28405 print in pdf print on web

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Relazione su

“CORSI E RICORSI STORICI NEL PROCESSO CIVILE DALL’800 AD OGGI”

 

dell’Avv. Eugenio Amaradio, Presidente della Camera Civile di Enna e  Segretario dell’Unione Siciliana delle Camere Civili

 

Premessa

 

Dopo una evoluzione storica millenaria, il nostro legislatore aveva impostato il primo codice di rito post-unitario del 1865 su dei principi liberisti in base ai quali le parti contendenti avevano la piena disponibilità dell’azione mentre il giudice interveniva, in linea di massima, solo con la decisione.

Con il nuovo secolo, iniziando a diffondersi i principi di uno stato autoritario, si cominciò a pensare di concentrare nelle mani del giudice un sempre maggiore potere diciamo “dirigista” e di sottrarre, poco alla volta, alle parti ed ai loro difensori il potere “dispositivo” per cui si pervenne, infine, nel 1940 ad un nuovo codice di rito ispirato a tali concetti.

Sembrava ovvio che, finita la seconda guerra mondiale e ritornata la democrazia, il nostro legislatore dovesse abrogare questo nuovo codice di ispirazione fascista e ripristinare rapidamente un processo liberale, ma così non fu. Si continuò, invece, nella strada intrapresa e, con varie riforme succedutesi negli anni, si continuò ad accentrare sempre più poteri nelle mani del giudice, limitando di conseguenza quelli delle parti, nell’illusorio convincimento di agevolare così il corso della giustizia.

Il risultato è stato grave e pernicioso in quanto i giudici, cronicamente insufficienti di numero, furono oberati da una mole enorme di lavoro in dipendenza delle molteplici attività cui furono chiamati, specie in campo penale, per cui non ressero all’impatto e la giustizia civile entrò in una grave crisi esistenziale non ancora risolta, tanto che la stessa è divenuta oggi “la cenerentola” dell’amministrazione giudiziaria.

E dire che in passato ci sono stati inculcati alcuni concetti fondamentali tra cui, quello basilare, che la giustizia civile, con il suo bagaglio bimillenario di codici, studi, approfondimenti, dottrina e giurisprudenza, costituisse la base fondamentale della nostra civiltà occidentale e del nostro vivere quotidiano.

Oggi, celebrando la 1° Giornata Europea della Giustizia Civile, ci proponiamo lo scopo di rivalutare la funzione preminente di tale giurisdizione, per affermare, a voce alta, che è assolutamente necessario che la stessa funzioni e sia efficiente perché essa ci può e ci deve garantire un ordinato vivere civile e deve evitare che i cittadini, non potendo risolvere equamente ed al meglio i loro problemi possano venire alle armi (secondo l’antico broccardo “ne cives ad arma veniant).       

 

Sulla crisi della giustizia civile

 

Bisogna costatare, quindi, senza infingimenti di sorta, che la crisi della giustizia civile attanaglia il nostro paese da decenni senza che si sia riusciti a trovare una soluzione.

Il nostro legislatore, negli ultimi lustri, ha attuato vari espedienti che si sono rivelati quasi tutti inutili o, addirittura, dannosi.

Ricordiamo tra i vari provvedimenti quelli che, al fine suddetto, hanno cercato di:

  • accentrare sempre più nelle mani del giudice l’iniziativa processuale, comminando innumerevoli preclusioni e decadenze;
  • istituire vari inefficaci filtri conciliativi a fini deflattivi;
  • valorizzare i procedimenti cautelari nel tentativo di assicurare una giustizia più rapida, anche se sommaria;
  • affidare quanta più giurisdizione possibile ai “giudici onorari”.

Ultimamente, anche a seguito di varie e pressanti iniziative delle rappresentanze della magistratura e dell’avvocatura, sono state attuate alcune iniziative che sembra possano dare un qualche contributo alla soluzione del problema:

E’ stata nominata una Commissione Ministeriale, presieduta dal Prof. Romano Vaccarella, che ha elaborato una riforma generale del codice di procedura civile nel presupposto dell’abbandono dei suddetti principi dirigisti e di restituire il processo, per quanto possibile, all’iniziativa delle parti.

Nell’ambito della riforma del diritto delle società, è stato approvato il Decreto Legislativo 17.1.2003 n. 5, contenente nuove norme di procedura nelle controversie relative a rapporti societari e similari, che ha portato alcune significative novità, anche se limitate ed eccessivamente dettagliate, ancora infarcite di varie decadenze e preclusioni, ispirate al principio della privatizzazione del processo, secondo le prime indicazioni della Commissione Vaccarella;  

Tuttavia, il 16 Luglio 2003, quale anticipazione della riforma generale, è stata approvata all’unanimità dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, in sede legislativa, una mini riforma del C.P.C. che è in discussione oggi al Senato. Tale riforma, pur migliorando alcuni aspetti pratici del vigente codice, continua ad ispirarsi ai principi dirigisti delle precedenti riforme del 1973 e del 1990. Ciò è stato anche evidenziato dall’A.N.M. che, in una nota del 26.7.2003, ha rilevato che si acuiscono “le perplessità per la divaricazione che si è venuta a creare tra il rito adottato con riguardo ai procedimenti in materia di diritto societario … ed il rito che disciplinerà le restanti controversie civili” dato che, nell’interno dello stesso sistema, ci saranno “antitetiche concezioni del processo”.

Infine, il progetto di riforma elaborato dalla detta Commissione Vaccarella è stato sottoposto al Consiglio dei Ministri che in data 25 Ottobre 2003 ha provveduto ad approvarlo insieme alla  relativa proposta di legge delega da sottoporre al Parlamento;

A questo punto non sappiamo più cosa pensare, sembra proprio che il nostro legislatore, che appariva orientato ad approvare una riforma epocale in cui venivano abbandonati i preconcetti di un secolo, oggi stia invertendo i suoi programmi tornando intanto indietro al dirigismo di un tempo con la detta mini riforma del cpc  e, contemporaneamente, iniziando la discussione del nuovo codice che potrà essere approvato chissà come e quando.

 

Sull'evoluzione del codice di rito dal 1865 ad oggi

 

E’ opportuno, in proposito ed a tal fine, ricordare sinteticamente l’evoluzione del nostro codice di rito a far tempo dal R. D. Leg. Del. 25 Giugno 1865 n. 2366, seguito dopo innumerevoli modifiche dal R. D. Leg. Del. del 28 Ottobre 1940 n. 1443 che approvava il codice vigente, dalla relativa “novella” di cui alla Legge 14 Luglio 1950 n. 581 e dalle ultime modifiche ed integrazioni.

Il processo, regolato dal codice del 1865, era composto da due distinti procedimenti: il formale ed il sommario.

Nel primo le istanze e le risposte erano fatte per iscritto, mediante comparse deliberative con notificazione al procuratore avversario, con termini non perentori; esaurita la trattazione scritta, la causa veniva iscritta sul ruolo generale di spedizione per essere istruita e decisa. Le caratteristiche del secondo erano l'oralità e la citazione ad udienza fissa.

Come ci dice Enrico Tullio Liebman (v. Manuale di Diritto Processuale Civile, Giuffrè Ed. 1957, 22), i componenti del collegio giudicante non avevano alcuna conoscenza diretta dell’andamento del processo e della sua istruzione e, al momento della decisione, dovevano formare il loro giudizio sulla lettura dei verbali e delle difese scritte (come d’altro canto avviene ancora oggi dato che, per le lungaggini del processo attuale, il decidente non è quasi mai lo stesso dell’istruttore). Ogni questione controversa, anche se riguardante il procedimento e l’ammissione delle prove, doveva essere decisa dal Collegio con sentenza interlocutoria soggetta ad appello (come avviene ancora oggi a seguito dell'impugnabilità delle sentenze non definitive).

Questi ed altri presunti difetti furono denunciati, sin dall'inizio del secolo, da Giuseppe Chiovenda che, con instancabile opera documentata nelle sue "Istituzioni" Vol. II, 1, 362 e segg., immaginando un processo civile perfetto ed idealizzato secondo le concezioni “statalistiche” del tempo, sostenne che era necessaria una riforma che doveva essere radicale e riguardare la struttura del procedimento, informata al principio dell’oralità ed agli altri principi connessi dell’immediatezza, della concentrazione, dell'immutabilità del giudice e della non appellabilità delle decisioni interlocutorie, in modo che il giudice potesse intervenire più attivamente nella direzione del procedimento e nella formazione del materiale di cognizione.

Queste idee, di per se fascinose, portate avanti dal Chiovenda in un progetto di riforma della "Commissione per il dopo-guerra" sin dal 1920, furono poi poste a base del nuovo codice del 1940, propugnato dal nuovo Guardasigilli Dino Grandi e predisposto da Piero Calamandrei, Francesco Carnelutti ed Enrico Redenti, i tre più importanti processualisti del tempo, il primo dei quali dettò anche la Relazione al Re.

Il nuovo Codice fu direttamemte influenzato dallo stesso Mussolini che, in calce ad una nota di un magistrato rimasto ignoto che sollecitava la riforma in senso autoritario, appose di suo pugno le parole: “Ha ragione. Il giudice non dirige ma è diretto”. (si veda Franco Cipriani in Storie di processualisti e di oligarchi, La Procedura Civile nel Regno d'Italia, Giuffrè Ed. Milano, 1991, 364 e segg.).

Così quasi tutti i poteri di gestione del processo vennero sottratti alle parti ed affidati all'"autorità del giudice" secondo lo "spirito del Regime" allora imperante.

Purtroppo, i risultati che si ottennero non furono pari agli sforzi prodigati per cui fu subito evidente che il nuovo codice era inadeguato in quanto, invece di snellire il processo, lo aveva reso più lungo e farraginoso per l’obbiettiva impossibilità di giudici ed avvocati di gestirlo adeguatamente.

Invero, gli avvocati,  immediatamente dopo il 25 Luglio del 1943 alla caduta del regime fascista, si accorsero del problema e chiesero l’abrogazione del nuovo codice propugnando il ritorno al codice del 1865. La “querelle” si trascinò per diversi anni, tutti gli Ordini degli Avvocati insistevano per l’abrogazione, solo il Consiglio Nazionale Forense alla cui Presidenza intanto era stato eletto proprio quel Piero Calamandrei che aveva dato le ultime rifiniture al Codice ed aveva scritto la Relazione al Re, non si pronunciò mai ed alla fine il Codice non venne abrogato. (si veda Franco Cipriani in Avvocatura e diritto alla difesa, Saggi, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1999, pp. 240 e segg.)   

Si considerò solo che il Codice aveva bisogno di ulteriori “rifiniture” che sopravvennero con la “novella” del 1950 in cui, tra l’altro, si attenuò il principio dell’oralità con la legalizzazione delle memorie scritte.

La crisi della giustizia civile, allora latente, si andò aggravando sempre di più sia per i formalismi previsti dal nuovo codice, sia per il vorticoso progredire della nostra società e sia per le congenite insufficienze degli uffici giudiziari.

Tale crisi ha provocato e continua a provocare proteste generali e confuse che non hanno fatto individuare le vere cause ed allora, illogicamente, si è data la colpa al codice, ritenuto paradossalmente lassista e che, quindi, è stato ulteriormente e continuamente riformato e maltrattato, ed agli avvocati o ai magistrati che, ingiustamente, sono stati ritenuti anche loro responsabili del disastro.

In considerazione di questi convincimenti, ancora oggi imperanti e diffusi nell’opinione pubblica attraverso i mass media, nel recente passato il nostro legislatore, come accennato nelle premesse, invece di affrontare alla radice il problema, tornando ad un processo più liberale affidato, per quanto possibile, all’iniziativa delle parti ed incrementando il numero dei magistrati, ha ritenuto, nel tempo, di approvare innumerevoli, ulteriori, affrettate ed, a volte, contraddittorie riforme che, come sopra detto, sono risultate inefficaci se non dannose.

Si cominciò con la Legge 11 Agosto 1973 n. 533 sul rito del processo del lavoro, esteso alle controversie agrarie ed a quelle sulle locazioni, si continuò con la Legge 26 Novembre 1990 n. 353 che, con le ulteriori modifiche apportate dalle leggi successive e da ultimo dal D. Lgs. 19 Febbraio 1998 n. 51 sul giudice unico di primo grado, ha comportato il terzo e decisivo trapianto nel corpo del Codice del 1940.

Con tali norme, tutte ancora ispirate ai principi che il Chiovenda dettò ed il Carnelutti attuò in altro contesto storico, il nostro legislatore ha proseguito testardamente nel suo programma ed ha previsto una sempre più pregnante iniziativa del giudice divenuto, intanto, il più delle volte monocratico.

Rimarchevole è stato il tentativo governativo formulato nel 2000 di istituire delle camere di conciliazione ora riapparse negli artt. 38 e segg. del  D. Leg. n. 5/03 ed oggi anche nella proposta di legge delega per la riforma del codice approvata, come detto, nell’Ottobre scorso. E’ veramente strabiliante che si continui a battere una strada che nel passato si è rivelata assolutamente inidonea ed irrealistica (si vedano tutti i pretesi filtri già istituiti), affidando anche a terzi uno dei compiti istituzionalmente affidati da secoli esclusivamente alla classe forense.

Come detto, unica eccezione a tali indirizzi è stata la riforma attuata “in nuce” con le norme processuali previste dal D. Leg. n. 5/03 per le cause societarie.

Ma ecco che, quasi contemporaneamente alla riforma Vaccarella, con la ultimissima "mini riforma" varata il 16 Luglio u.s. sembra ci sia stato un ripensamento e si sia tornati ai soliti vecchi ed obsoleti principi.

Queste scelte, ora anche ambigue data la contemporanea discussione in Parlamento di due progetti di legge contrastanti ed antitetici, hanno portato la giurisdizione civile non solo a non riuscire, nonostante tutto, a smaltire il notevole arretrato, ma nemmeno a rendere una giustizia più giusta, sgombera da inutili formalismi, dato che una buona percentuale di liti civili viene oggi decisa in base a questioni di forma e non di merito, pervenendo così, ineluttabilmente, ad una condizione generale di “denegata justitia”.

 

Sui principi del rito civile

 

Per secoli il nostro processo civile è stato informato ad alcuni principi di carattere generale che fanno parte, indiscutibilmente, della nostra civiltà giuridica e che risultano - oggi - soppiantati dal principio dell'oralità, per altro inutilmente portato avanti e mai concretamente attuato per l'evidente impossibilità di realizzare un processo civile sui conseguenti cardini dell'immediatezza, della concentrazione e dell'immutabilità del giudice, immaginati, se non sognati, all'inizio del secolo, in un contesto socio-economico ben diverso dall'attuale.

Di tali principi è bene ricordare quelli che appaiono ultimamente più minacciati o scarsamente attuati:

  • la forma scritta;
  • l’iniziativa di parte o principio della domanda;

·        la disponibilità delle prova o principio dispositivo;

  • la strumentalità delle forme.

 

Orbene, tali principi sono stati e, si teme, saranno ancora calpestati o semplicemente ignorati dal nostro legislatore con grave disdoro sia per la giustizia sostanziale, sia per l'efficienza stessa della giurisdizione per cui appare necessario, oggi più che mai, battersi per il loro ripristino.

 

Sulla riforma auspicabile del processo civile di cognizione

 

Bisogna auspicare, come accennato, che il legislatore provveda ad effettuare una definitiva inversione di tendenza e che lo stesso, attuando la riforma generale del rito civile, torni all’antico, restaurando il rispetto dei principi suddetti e, soprattutto, ritornando alla forma scritta, abbandonando la inattuabile forma orale e rispettando l'iniziativa di parte e la strumentalità delle forme.

Dato che i risultati ultimi appaiono insufficienti e contraddittori, è indispensabile che le rappresentanze della magistratura e dell’avvocatura prendano ancora posizione netta in favore di un processo “liberale” affidato alla disponibilità delle parti per quanto riguarda tutti gli atti preparatori ed al giudice per tutti gli atti decisionali (Ci dovremmo chiedere perché il processo civile non debba essere semplice e snello come sono, in linea di massima, il processo amministrativo e quello tributario).

Ritengo che tutti noi, che lavoriamo nell’ambito della giustizia civile e che, consentitemi, la amiamo, dobbiamo chiedere insistentemente una riforma epocale del rito civile basata su questi due concetti fondamentali:

Lasciare alla libera iniziativa delle parti tutte le fasi del processo in cui non sia necessario l’intervento del giudice, dalla vocatio in jus alle richieste istruttorie, dalla produzione documentale allo scambio di tutte le difese;

Chiedere ed ottenere l’intervento del giudice, con l’iscrizione della causa a ruolo e/o con un’istanza di trattazione, a cura della parte più diligente, solo ed esclusivamente nelle fasi fondamentali del processo:

della decisione delle questioni preliminari e pregiudiziali, ove necessario;

dell’ammissione e dell’assunzione delle prove e delle C.T.U. ed, infine,

della decisione della causa.

Con ciò, indirettamente, si otterrebbe anche lo sfoltimento dei ruoli e la fine delle innumerevoli udienze impropriamente chiamate istruttorie e dell’intasamento delle cancellerie dove dovrebbero pendere soltanto le cause nelle fasi decisionali.

L'avvocatura ha affrontato più volte tali problematiche pronunciandosi decisamente perché il processo civile venga semplificato con l’unificazione dei riti e restituito all’iniziativa delle parti.

In particolare l’OUA, Organismo Unitario dell’Avvocatura, della cui Assemblea Nazionale mi onoro di aver fatto parte dal 1996 al 2000, e l’Unione Nazionale delle Camere Civili, di cui la nostra Camera Civile fa parte, si sono fatti da sempre promotori di varie iniziative tendenti a razionalizzare e snellire il sistema processuale civile.

Dobbiamo auspicare che lo Stato, per garantire ai cittadini una convivenza civile, ordinata e rispettosa dei diritti di ognuno, debba realizzare al più presto l'auspicata riforma, secondo i principi sopra esposti, semplificando il rito al massimo con la eliminazione di tutte le forme inutili, di tutte le decadenze e le preclusioni non necessarie e di tutte le udienze dilatorie per pervenire, infine, all’attuazione di una giustizia sostanziale.

Mi piace ricordare, infine, che già ai tempi della Repubblica di Roma nel IV sec. a.C. furono abolite nel processo le “formule sacramentali” e noi oggi, invece, dopo oltre duemila anni, continuiamo a discutere più di forme, di preclusioni e di decadenze e meno di giustizia sostanziale.


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