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Cassazione 2023-04-26 - Pdf - Stampa

Cassazione ed eccezioni sulla incapacità a testimoniare ex art. 246 cpc

Riproposizione delle richieste istruttorie; incapacità a testimoniare ex 246 cpc non rilevabile d'ufficio.

19. Nell'interesse della legge, ai sensi dell'art. 363 c.p.c., vanno affermati i seguenti principi di diritto:

«L'incapacità a testimoniare disciplinata dall'art. 246 c.p.c. non è rilevabile d'ufficio, sicché, ove la parte non formuli l'eccezione di incapacità a testimoniare prima dell'ammissione del mezzo, detta eccezione rimane definitivamente preclusa, senza che possa poi proporsi, ove il mezzo sia ammesso ed assunto, eccezione di nullità della prova».

«Ove la parte abbia formulato l'eccezione di incapacità a testimoniare, e ciò nondimeno il giudice abbia ammesso il mezzo ed abbia dato corso alla sua assunzione, la testimonianza così assunta è affetta da nullità, che, ai sensi dell'art. 157 c.p.c., l'interessato ha l'onere di eccepire subito dopo l'escussione del teste ovvero, in caso di assenza del difensore della parte alla relativa udienza, nella prima udienza successiva, determinandosi altrimenti la sanatoria della nullità».

«La parte che ha tempestivamente formulato l'eccezione di nullità della testimonianza resa da un teste che si assume essere incapace a testimoniare, deve poi dolersene in modo preciso e puntuale anche in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi altrimenti ritenere l'eccezione rinunciata, così da non potere essere riproposta in sede d'impugnazione». Fonte: cassazione

 

A

Art. 246 cpc - Non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio


Cassazione SS.UU. civili sentenza 6 aprile 2023, n. 9456

Presidente: xxx - Estensore: xxx

FATTI DI CAUSA

1. xx xx xx , in proprio e quali eredi di G.A., hanno convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Catania, Fondiaria Sai s.p.a., oggi Unipol-Sai Assicurazioni s.p.a., quale impresa designata per il Fondo di garanzia per le vittime della strada, chiedendone condanna al risarcimento del danno subito in conseguenza di un sinistro stradale in cui aveva perso la vita il loro congiunto.


2. Secondo la prospettazione degli attori, il ciclomotore condotto da G.A., e con a bordo quale trasportata S.L., era stato tamponato da un'autovettura rimasta sconosciuta, sicché il primo era deceduto e la trasportata aveva riportato gravi lesioni.


3. Sono intervenuti in giudizio ...., ... del defunto, anche in qualità di genitore esercente la responsabilità sul figlio minore ..., nonché ...., reclamando il risarcimento dei danni subiti in conseguenza del decesso del G.A.


4. L'assicuratore ha resistito alle domande.


5. Il Tribunale adito le ha respinte per mancanza di prova, giudicando inattendibili le dichiarazioni rese dal teste S.G. ed inutilizzabili quelle della teste S.L., terza trasportata, la cui testimonianza era stata assunta nonostante l'eccezione di incapacità formulata dalla società convenuta, poiché incapace a testimoniare ai sensi dell'art. 246 c.p.c.

6. La Corte d'appello di Catania ha confermato la decisione con sentenza del 19 marzo 2019, osservando:

- il teste S. non era attendibile, ed in ogni caso le sue dichiarazioni rendevano inverosimile la dinamica del sinistro riferita dagli attori;

- S.L., terza trasportata, era incapace a testimoniare, seppure integralmente risarcita dall'istituto assicuratore.

7. Per la cassazione della sentenza S.O., in proprio e nella qualità, ha proposto ricorso per tre mezzi.

8. Unipol-Sai Assicurazioni s.p.a. ha resistito con controricorso.

9. Non hanno spiegato difese gli altri intimati.

10. Con ordinanza del 9 giugno 2022, n. 18601, la terza sezione ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l'assegnazione del ricorso alle Sezioni unite, ed il Primo Presidente ha provveduto in conformità.

11. Sono state depositate memorie.

12. Il Procuratore generale ha concluso per l'accoglimento del primo motivo di ricorso.

13. G.S. si è costituito in proprio, essendo medio tempore divenuto maggiorenne.


RAGIONI DELLA DECISIONE



14. Il ricorso contiene tre motivi.



14.1. Il primo mezzo, che si protrae da pagina 6 a pagina 19 del ricorso, denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 112, 115, 116, 157 e 246 c.p.c., ex art. 360, n. 3, c.p.c., «perché il giudice di secondo grado ha errato nel condividere la statuizione del primo giudice in ordine alla non attendibilità della disposizione resa dal teste S., valutando come non verosimile il fatto che egli non ricordasse dove era diretto quella mattina, e nel condividere la statuizione del primo giudice in ordine all'incapacità a testimoniare della terza trasportata sig.ra S.L., sebbene ritualmente ammessa in fase di istruttoria, ritenendola inutilizzabile ai fini della decisione».


14.2. Il secondo mezzo, da pagina 19 a pagina 22 del ricorso, denuncia violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione all'art. 2697 c.c., ex art. 360, n. 3, c.p.c., «per non aver concesso la possibilità di dimostrare la dinamica del sinistro tramite CTU tecnica, che pure era stata richiesta tempestivamente nell'atto di intervento nel giudizio di primo grado e ribadita nel corso di entrambi i giudizi di primo grado e di appello».


14.3. Il terzo mezzo denuncia nullità della sentenza o del procedimento in relazione agli artt. 112 e 132 c.p.c., ex art. 360, n. 4, c.p.c., per avere omesso la Corte territoriale di pronunciarsi in ordine alla richiesta di CTU tecnica, essendo tenuta a motivare sia in ordine all'ammissione della consulenza che al diniego della stessa.

15. L'ordinanza interlocutoria con cui il ricorso è stato trasmesso al primo presidente, per l'assegnazione alle Sezioni unite, ha ritenuto:


- che il primo mezzo, nella parte volta a denunciare l'erroneità della affermata incapacità della teste S.L., ponesse la questione della sorte dell'eccezione di incapacità a testimoniare, ai sensi dell'art. 246 c.p.c., quando la parte, che l'abbia tempestivamente sollevata, ometta poi di formulare l'eccezione di nullità della testimonianza una volta che essa sia stata ammessa ed assunta, ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c.;


- che il principio invocato dalla ricorrente, secondo cui la nullità della testimonianza resa da persona incapace, in quanto titolare di un interesse idoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio, deve essere eccepita subito dopo l'espletamento della prova, ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c., o al più nell'udienza successiva quando il difensore della parte interessata non sia stato presente all'assunzione del mezzo istruttorio, con conseguente sanatoria [della] mancanza dell'eccezione, sarebbe stato affermato per la prima volta da Cass. 4 agosto 1990, n. 7869, ed implicitamente da Cass. 10 febbraio 1987, n. 1425, per poi consolidarsi nella giurisprudenza successiva;


- che la citata Cass. 4 agosto 1990, n. 7869, avrebbe fatto leva su due argomenti, da un lato la decadenza dall'eccezione di nullità della testimonianza assunta in mancanza della proposizione del reclamo ex art. 178, comma 2, c.p.c. avverso l'ordinanza del giudice istruttore che, ammettendo il teste, aveva implicitamente rigettato l'eccezione di incapacità; dall'altro lato, sulla considerazione che l'eccezione preventiva di incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. non era idonea a fungere anche da eccezione di nullità della testimonianza ammessa ed assunta, attesa la diversa natura e funzione delle due eccezioni;


- che la prima di dette argomentazioni era normativamente superata, oltreché in sé incoerente, e che, pur essendo la testimonianza resa da incapace considerata come affetta da nullità relativa dalla giurisprudenza e dottrina maggioritaria, vi sarebbe una tesi dottrinale minoritaria secondo cui le deposizioni assunte in violazione del divieto di cui all'art. 246 c.p.c. non sono nulle ma inefficaci, così da non poter essere utilizzate dal giudice ai fini della decisione;


- che, tra le numerose pronunce che affermano la nullità relativa della testimonianza dell'incapace a testimoniare, la questione sarebbe stata affrontata ex professo solo da Cass. 6 maggio 2020, n. 8528, secondo cui «l'incapacità del testimone ... è disciplinata da una norma specifica in materia di prova testimoniale ... che, come tale, è una norma sul procedimento civile e, dunque, disciplinatrice della "forma" del relativo atto processuale ai sensi dell'art. 156 c.p.c. L'affidamento all'eccezione di parte della prospettazione dell'incapacità e, dunque, della deduzione della violazione della norma del procedimento, si risolve nella qualificazione di essa come eccezione di nullità ai sensi del citato art. 157, comma 1, c.p.c.»;


- che alcune sentenze si sarebbero discostate dall'indirizzo maggioritario, così da presupporre una qualificazione del vizio in termini diversi dalla nullità, non facendosi cenno a preclusioni derivanti dal mancato rispetto dell'art. 157, comma 2, c.p.c. (nell'ordinanza interlocutoria si richiamano Cass. 25 febbraio 1989, n. 1042; Cass. 15 giugno 1999, n. 5925; Cass. 7 febbraio 2000, n. 1840; Cass. 24 novembre 2004, n. 22146);


- che, in conclusione, la rilevata difformità tra i precedenti menzionati e l'indirizzo interpretativo maggioritario richiederebbe di valutare l'attualità e l'effettiva portata del principio secondo cui l'incapacità a testimoniare, prevista dall'art. 246 c.p.c., determina la nullità della deposizione e non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata a farla valere al momento dell'espletamento della prova o nella prima difesa successiva, restando altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c., senza che la preventiva eccezione di incapacità a testimoniare possa ritenersi comprensiva dell'eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante l'opposizione.


16. Sul tema occorre osservare quanto segue.


16.1. L'art. 246 c.p.c., secondo cui non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, viene tradizionalmente considerato espressione del principio nemo testis in causa propria, principio di origine romanistica, sebbene di non facile attribuzione, che nella variante nullus idoneus testis in re sua intelligitur si rinviene in D.22.V.10: esso sta ad affermare l'incompatibilità della posizione processuale di parte con quella di testimone, in forza di una valutazione compiuta a priori, la quale si risolve in ciò, che una confusione tra i due ruoli inficia, o meglio inficerebbe, almeno secondo il criterio dell'id quod plerumque accidit, la credibilità del teste, perché privo della condizione di terzietà che ne caratterizza, o meglio ne caratterizzerebbe, la figura.



16.2. Il condizionale è difatti d'obbligo, ove si consideri che la conoscenza che la parte ha dei fatti di causa ben può assumere rilievo a fini probatori, e dunque concorrere alla formazione del materiale istruttorio che il giudice utilizzerà per la decisione, non solo attraverso l'assunzione di mezzi poi sottratti al principio del libero convincimento, quale l'interrogatorio formale che conduce alla confessione tale da fare «piena prova», secondo la previsione dell'art. 2733, comma 2, c.p.c., ma anche di mezzi sottoposti, allo stesso modo delle testimonianze vere e proprie, al prudente apprezzamento, come nel caso dell'interrogatorio libero, di cui all'art. 117 c.p.c., o della confessione resa dal litisconsorte necessario, ai sensi dell'art. 2733, comma 3, c.p.c.


E ciò rende arduo intendere perché possa fare ingresso nel processo il sapere dei testi intorno ai fatti di causa attraverso la testimonianza, vi possa fare ingresso il sapere delle parti attraverso gli interrogatori, ed il sapere delle «persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio» sia di default bandito dall'ambito del materiale probatorio acquisibile al giudizio e confinato in una sorta di terra di nessuno in cui la conoscenza che pure taluno ha dei fatti non può assurgere a fonte del convincimento del giudice.


16.3. D'altronde, che una norma quale l'art. 246 c.p.c. non fosse necessitata, né coessenziale all'impianto che regge il processo civile, è reso manifesto da un duplice rilievo:

- da un lato che una analoga disposizione non era contenuta nel codice del 1865, il quale, mentre vietava l'assunzione della veste di testimone a parenti ed affini in linea retta, oltre che al coniuge della parte, attribuiva ad essa (art. 236) «il diritto di proporre i motivi che possono rendere sospetta la deposizione dei testimoni» (art. 237), senza cioè escludere ex ante i potenziali interessati dal numero dei testi possibili;

- dall'altro che previsioni analoghe a quella dettata dall'art. 246 c.p.c. non sono note ai principali ordinamenti continentali: non a quelli tedesco ed austriaco, che ammettono la testimonianza della parte (§§ 445-484 della ZPO tedesca, «Beweis durch Parteivernehmung»; §§ 371-383 della ZPO austriaca, «Beweis durch Vernehmung der Parteien»); non a quello francese che contempla la comparution personnelle des parties, la quale consente al giudice di trarre ogni conseguenza giuridica dalle dichiarazioni delle parti, dall'assenza o dal rifiuto di rispondere di una, attribuendo a ciò il valore di principio di prova scritta; non a quello spagnolo che consente alle parti - diremmo - di allegare a sospetto il teste che abbia un «interés directo o indirecto en el asunto de que se trate» (art. 377 della LEC); è poi superfluo rammentare che la testimonianza della parte è ammessa nel common law.


16.4. Ben si comprende, allora, come larga parte della dottrina abbia manifestato forti riserve sull'opportunità della scelta normativa rappresentata dall'art. 246 c.p.c.: riserve sintetizzabili come si accennava in ciò, che - per dirla con le parole contenute nell'ordinanza di rimessione che condusse a Corte cost. 23 luglio 1974, n. 248, la quale espunse l'art. 247 e salvò l'art. 246 c.p.c. - la norma «limita sostanzialmente, fino talvolta ad eliminarla, la possibilità di dimostrare i fatti addotti a sostegno della domanda o delle eccezioni e quindi di agire in giudizio per la tutela del proprio diritto».


16.5. L'attacco alla disposizione ha seguito percorsi diversi.

Alcuni hanno fatto leva sui profili di incostituzionalità della norma, laddove comprime il «diritto di difendersi provando», ma l'orientamento si è tradotto in questioni di legittimità costituzionale che il giudice delle leggi ha man mano reiteratamente disatteso, da ultimo con Corte cost. 8 maggio 2009, n. 143.

Buona parte della dottrina ha provato a circoscrivere l'ambito di applicazione della norma sostenendo che l'incapacità a testimoniare colpirebbe soltanto coloro i quali sono legittimati a determinate forme di intervento in causa e non ad altre. Ma il tentativo, in fin dei conti, non ha avuto alcun successo. Movendo dalla distinzione tra parte in senso sostanziale ed in senso processuale, vi è stato chi ha sostenuto che potrebbe testimoniare l'interveniente adesivo dipendente, essendo egli estraneo al diritto in contesa. Ma altri dalla stessa premessa hanno tratto l'affermazione opposta, e cioè che sarebbe incapace proprio l'interveniente adesivo dipendente, in quanto privo di una autonoma azione e parte in senso sostanziale del rapporto controverso. Altri ancora hanno osservato che colui il quale sia in astratto legittimato a esercitare l'intervento adesivo dipendente, ma non lo abbia esercitato, manifesta in tal modo il proprio disinteresse per la vicenda, e così la propria non inattendibilità, tale perciò da far venir meno l'incapacità. A fronte dell'affermazione dell'incapacità a testimoniare dei soli legittimati all'intervento principale e litisconsortile, ancora, si è replicato che la soluzione non avrebbe una concreta base normativa, dal momento che gli artt. 246 e 105 c.p.c. utilizzano entrambi il termine «interesse». Sicché si è infine ammesso che l'art. 246 c.p.c., che non pone distinzioni, renda incapaci tutti coloro che siano legittimati ad intervenire nel giudizio in corso, ai sensi di entrambi i commi dell'art. 105 c.p.c.


16.6. Si può dire, dinanzi all'ampio raggio di incertezze manifestate dalla dottrina, che alla giurisprudenza non rimanesse altra strada se non quella di un'interpretazione ampia ed onnicomprensiva del significato della norma, riferibile a tutte le categorie di intervento (Cass. 23 ottobre 2002, n. 14963; Cass. 5 gennaio 1994, n. 32; Cass. 18 marzo 1989, n. 1369; Cass. 6 gennaio 1981, n. 47; Cass. 20 maggio 1977, n. 2083), senza che possa distinguersi tra intervento volontario e intervento ad istanza di parte (Cass. 23 ottobre 2002, n. 14963; Cass. 3 aprile 1998, n. 3432).


16.7. Sulla rilevabilità dell'eccezione di incapacità a testimoniare ad istanza di parte o anche d'ufficio, può dirsi invece che la dottrina manifesti un'opinione pressoché unanime: secondo cui l'incapacità sarebbe suscettibile di rilievo officioso, opinione peraltro non agevolmente comprensibile laddove sostenuta anche da coloro i quali criticano nel fondo la norma, ed addirittura ne predicano la contrarietà a Costituzione, il che parrebbe consigliare semmai l'interpretazione opposta.


16.8. Con riguardo alla giurisprudenza, è agevole richiamare l'orientamento granitico secondo cui l'eccezione ex art. 246 c.p.c. può essere sollevata solo ad istanza di parte (Cass. 31 gennaio 1956, n. 275; Cass. 14 luglio 1956, n. 2649; Cass. 14 marzo 1957, n. 866; Cass. 2 ottobre 1957, n. 3564; Cass. 17 ottobre 1957, n. 3905; Cass. 26 ottobre 1957, n. 4140; Cass. 9 dicembre 1957, n. 4621; Cass. 22 febbraio 1958, n. 587; Cass. 5 maggio 1958, n. 1472; Cass. 9 settembre 1958, n. 2989; Cass. 16 novembre 1960, n. 3061; Cass. 8 luglio 1961, n. 1638; Cass. 19 giugno 1961, n. 1441; Cass. 15 maggio 1962, n. 1034; Cass. 18 dicembre 1964, n. 2904; Cass. 5 febbraio 1968, n. 398; Cass. 5 settembre 1969, n. 3059; Cass. 24 marzo 1971, n. 817; Cass. 15 ottobre 1971, n. 2906; Cass. 10 ottobre 1972, n. 2976; Cass. 10 gennaio 1973, n. 61; Cass. 24 luglio 1974, n. 2222; Cass. 2 dicembre 1974, n. 3927; Cass. 14 dicembre 1976, n. 4637; Cass. 18 febbraio 1977, n. 738; Cass. 3 febbraio 1978, n. 494; Cass. 18 gennaio 1979, n. 375; Cass. 8 agosto 1979, n. 4625; Cass. 3 ottobre 1979, n. 5068; Cass. 6 dicembre 1980, n. 6349; Cass. 18 dicembre 1987, n. 9427; Cass. 4 agosto 1990, n. 7869; Cass. 17 dicembre 1996, n. 11253; Cass. 20 giugno 1997, n. 5534; Cass. 4 novembre 1997, n. 10781; Cass. 12 agosto 1998, n. 7938; Cass. 21 aprile 1999, n. 3962; Cass. 2 febbraio 2000, n. 1137; Cass. 18 gennaio 2002, n. 543; Cass. 1° luglio 2002, n. 9553; Cass. 27 ottobre 2003, n. 16116; Cass. 7 ottobre 2004, n. 15308; Cass. 12 gennaio 2006, n. 403; Cass. 3 aprile 2007, n. 8358; Cass. 25 settembre 2009, n. 20652; Cass., Sez. un., 23 settembre 2013, n. 21670; Cass. 10 ottobre 2014, n. 21395).

Citazioni, quelle che precedono, effettuate senza pretesa di completezza. Questa Corte, cioè, non ha mai dubitato che l'incapacità a testimoniare debba essere eccepita dalla parte interessata, secondo la sequenza che più avanti si vedrà.

16.9. La ragione su cui tale indirizzo poggia è, se si guarda alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, del tutto chiara.

I limiti soggettivi ed oggettivi all'ammissibilità della prova testimoniale sono per lo più posti nell'interesse delle parti, non di un interesse che le trascende, del quale il giudice debba ergersi a solerte gendarme, ed il dato normativo non offre univoci elementi tali da dimostrare che il legislatore abbia affidato al giudice un simile compito di controllo, volto all'ottemperanza di un supposto ordine pubblico processuale che innervi nel suo complesso la materia della prova testimoniale: semmai, anzi, il dato testuale è di segno contrario, ove si consideri che alla recisa prescrizione dettata dal poi dichiarato incostituzionale art. 247 c.p.c., costruita in termini di fermo divieto, si contrappone la previsione dell'art. 246 c.p.c., che mira piuttosto garantire un ben più blando requisito di plausibile attendibilità del teste.

In una pragmatica considerazione di insieme, d'altronde, non sembra affatto che le posizioni del teste e del portatore di un interesse tale da legittimare la sua partecipazione al giudizio si collochino agli antipodi l'una dell'altra: a meno di non credere ad una ingenua contrapposizione tra la testimonianza del c.d. terzo estraneo, dotata così di attitudine ad apportare al processo uno schietto ed oggettivo reportage della pura verità materiale dei fatti oggetto di causa, ed il teste portatore di un interesse che legittimerebbe la sua partecipazione al giudizio, per definizione inattendibile. Se è vero che il giudice non può non credere che possa davvero darsi una ricostruzione giudiziale della verità materiale dei fatti di causa, in una visione per così dire «corrispondentista», quella, per usare la formula onusta di storia, dell'adequatio rei et intellectus; e se è vero che, in un sistema costituzionale, come il nostro, ispirato ai principi delle democrazie occidentali, la ricerca della verità nell'ambito del processo civile è da tenere come valore imprescindibile, che deve informare di sé le regole del procedimento probatorio; non è men vero che certo non è la prova testimoniale lo strumento principe pensato, presso di noi, per la ricostruzione di una simile verità oggettiva, nel qual caso non avrebbe alcun senso, per far solo un'osservazione elementare, la previsione del codice di rito della preventiva deduzione della prova testimoniale per articoli separati, articoli sui quale l'esperienza insegna che sovente i testi, pur terzi estranei, rispondono a domande sulle quali risultano alle volte anche fin troppo preparati. Sicché non è poi così bizzarro che le parti possano voler consentire a che sia escusso un teste altrimenti incapace.

In definitiva, proprio perché l'impianto del processo civile non è improntato ad un assetto autoritario, è alle parti che spetta di scegliere, nei limiti in cui l'ordinamento lo prevede, i percorsi istruttori da seguire al fine della dimostrazione dei propri assunti, senza che possano ammettersi poteri officiosi del giudice, quanto al rilievo dell'incapacità a testimoniare, che non discendano dalla legge, sia pure per via di interpretazione sistematica, dal momento che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato appunto dalla legge, e che l'esercizio di eventuali poteri officiosi deve rimanere collocato entro l'ambito del precetto costituzionale volto ad assicurare il contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale.

Il giudice - salvo che la legge non disponga diversamente, come ad esempio accade nel rito del lavoro, ove l'art. 421 c.p.c. stabilisce che possa disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ma altrettanto potrebbe dirsi con riguardo al nuovo rito unitario di famiglia, che, se non altro in presenza di minori, riconosce poteri officiosi particolarmente dilatati, tali da far saltare lo stesso principio di corrispondenza tra chiesto e pronunziato - decide dunque, almeno di regola, sulla base del materiale probatorio che le parti gli hanno messo a disposizione. Il che vuol dire che esse ben possono scegliere di consentire alla assunzione di un teste incapace, dal momento che ciò non trova ostacolo in un'esigenza di ordine pubblico processuale altrimenti desumibile.


16.10. In questa linea, nel campo dei limiti oggettivi alla prova testimoniale, è stato già affermato che solo l'inammissibilità della testimonianza diretta a dimostrare la conclusione di un contratto per il quale la legge richieda la forma scritta ad substantiam è rilevabile d'ufficio, giacché solo in tale ipotesi la norma risponde ad un interesse di rilievo pubblicistico - interesse noto, secondo l'opinione corrente: richiamare l'attenzione dei contraenti sugli effetti dell'atto che stanno compiendo - che, mettendo fuori gioco la volontà delle parti, esiga un controllo officioso sull'ingresso di una prova tesa a confliggere con la previsione cogente dettata dall'ordinamento (Cass., Sez. un., 5 agosto 2020, n. 16723, ed in precedenza tra le altre Cass. 24 novembre 2015, n. 23934; Cass. 3 giugno 2015, n. 11479; Cass. 8 gennaio 2002, n. 144; Cass. 10 aprile 1990, n. 2988; Cass. 25 marzo 1987, n. 2902).

Al di fuori di tale ipotesi - hanno affermato le Sezioni unite - i limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale sono dettati da norme di carattere dispositivo e, proprio perché posti nell'interesse delle parti, sono altresì da queste derogabili, anche alla stregua di un accordo implicito desumibile dalla mancata opposizione: sicché la violazione delle formalità stabilite per l'ammissione della prova testimoniale, giacché ritenuta lesiva soltanto di interessi individuali delle parti, rimane affidata al meccanismo dell'art. 157, comma 2, c.p.c.

In continuità con l'indirizzo così stabilito, occorre oggi aggiungere che la stessa regola affermata per i limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale vale altrettanto per quelli soggettivi fissati dall'art. 246 c.p.c.


17. Quanto alle modalità di formulazione dell'eccezione di incapacità a testimoniare, questa Corte ha costantemente ribadito che essa va formulata in vista dell'assunzione, il che non esime l'interessato dal proporre l'eccezione di nullità della testimonianza, ove assunta nonostante l'eccezione di incapacità, successivamente al suo espletamento, nonché in sede di precisazione delle conclusioni.

Queste Sezioni unite (Cass., Sez. un., 23 settembre 2013, n. 21670) hanno difatti già chiarito - sia pur sinteticamente, trattandosi di affermazione ripetitiva su questione della quale non erano investite né come contrasto, né come questione di massima di particolare importanza - che la nullità di una testimonianza resa da persona incapace ai sensi dell'art. 246 c.p.c., essendo posta a tutela dell'interesse delle parti, è configurabile come una nullità relativa e, in quanto tale, deve essere eccepita subito dopo l'espletamento della prova, rimanendo altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157, comma 2, c.p.c.; qualora detta eccezione venga respinta, la parte interessata ha l'onere di riproporla in sede di precisazione delle conclusioni e nei successivi atti di impugnazione, dovendosi la medesima, in caso contrario, ritenere rinunciata, con conseguente sanatoria della nullità stessa per acquiescenza, rilevabile d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo.

In dottrina si è replicato che si tratterebbe di un sistema inutilmente ridondante, si è detto barocco, ma non è così, ed ognuno dei menzionati passaggi ha la sua indispensabile ragion d'essere, in un processo fatto di forme, delle quali, come è stato detto, non v'è ragione di lagnarsi «più di quello che ... avrebbe ragione il colombo di lagnarsi dell'aria che rallenta il suo volo, senza accorgersi che appunto quell'aria gli permette di volare».


17.1. L'eccezione di incapacità a testimoniare va formulata prima dell'ammissione della prova testimoniale, per l'ovvia ragione che, in mancanza di essa, il giudice, che non può rilevare d'ufficio l'incapacità, non ha il potere di applicare la regola di esclusione prevista dall'art. 246 c.p.c., sicché è tenuto ad ammettere il mezzo, in concorso, ovviamente, coi normali requisiti dell'ammissibilità e rilevanza, sottoposti al suo controllo.

Né, d'altro canto, potrebbe pensarsi ad un'eccezione di nullità - tale essendo il vizio riscontrabile, come si vedrà subito dopo - sollevata soltanto ex post, a seguito dell'assunzione, ma non preceduta dalla preventiva eccezione di incapacità, e ciò perché una simile condotta si scontra con il precetto dell'ultimo comma dell'art. 157 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha dato causa, né da quella che vi ha rinunciato anche tacitamente, omettendo, in questo caso, di formulare a suo tempo l'eccezione (Cass. 16 gennaio 1996, n. 303, ove si precisa che non rileva «in contrario che il teste sia divenuto successivamente parte nello stesso processo, per essere stato emesso nei suoi confronti ordine di integrazione del contraddittorio, giacché la qualità di teste e la conseguente possibilità di eccepirne l'incapacità ex art. 246 presuppongono proprio che la persona chiamata a testimoniare non abbia ancora assunto la qualità di parte»).

L'applicazione del meccanismo conservativo previsto dalla menzionata disposizione fa insomma sì che la prova del teste ipoteticamente incapace, che sia stata assunta in assenza dell'eccezione, è ormai definitivamente purgata della nullità, dal momento che in tanto opera la regola di esclusione in quanto la parte interessata ne abbia invocato, con l'eccezione, l'applicazione.

Sicché una nullità eccepita solo ex post non avrebbe senso, poiché quella nullità senza la precedente eccezione ormai più non sussiste.

Il che esime dall'aggiungere che, se si ammettesse un'eccezione di nullità spiegata solo ex post, e non preceduta ex ante dall'eccezione di incapacità, si consentirebbe all'interessato di rimanere in silenzio sino all'assunzione della prova, per poi valutare la convenienza della deposizione e decidere se vanificare l'assunzione con l'eccezione di nullità ovvero giovarsi degli elementi ottenuti, la qual cosa interferirebbe, se non altro, con elementari esigenze di economia processuale.


17.2. Dopodiché, ove il giudice ammetta la prova, nonostante l'eccezione di incapacità, in violazione dell'art. 246 c.p.c., la prova assunta è nulla.

Daremo per scontato che la prova testimoniale è un atto processuale, sebbene finanche su una tale affermazione non vi sia consenso in dottrina.

Accolta la premessa, ne discende che, quale atto processuale, anche la testimonianza deve misurarsi con la disciplina della nullità degli atti processuali, disciplina della cui applicabilità non sembra vi sia ragione di dubitare almeno per quanto attinente ai vizi riguardanti la deduzione ed assunzione della prova, sottoposta ad apposite regole formali scandite dal codice di rito.


Ma, anche a ricondurre l'incapacità a testimoniare al campo delle nullità c.d. extraformali, attinenti a capacità, legittimazione e volontà, ed a respingere, come fa parte della dottrina, una nozione di forma dell'atto processuale che abbracci non solo la sua veste esteriore, ma tutti i requisiti previsti dal modello legale, in vista del dipanarsi della sequenza processuale, sta di fatto che è diffusa l'opinione secondo cui la disciplina della nullità degli atti possa trovare applicazione anche per i vizi non formali, salvo verifica di incompatibilità da effettuare caso per caso: e così, ad esempio, ben si intende come l'incapacità del teste non possa essere sanata attraverso il congegno del raggiungimento dello scopo.

Sicché, in definitiva, come già questa Corte ha affermato, l'incapacità del testimone «è disciplinata da una norma specifica in materia di prova testimoniale (art. 246 c.p.c.) che, come tale, è una norma sul procedimento civile e, dunque, disciplinatrice della "forma" del relativo atto processuale ai sensi dell'art. 156 c.p.c. L'affidamento all'eccezione di parte della prospettazione dell'incapacità e, dunque, della deduzione della violazione della norma del procedimento, si risolve nella qualificazione di essa come eccezione di nullità ai sensi del citato art. 157, comma 1, c.p.c.» (Cass. 6 maggio 2020, n. 8528).

17.3. Una volta stabilito che, in caso di ammissione ed assunzione della prova testimoniale in violazione dell'art. 246 c.p.c., si versa in ipotesi di nullità, ed in particolare di nullità a carattere relativo, la nullità va fatta valere nel rispetto della previsione dell'art. 157, secondo comma, c.p.c., e cioè «nella prima istanza o difesa successiva all'atto o alla notizia di esso».

Questa Corte ha così più volte ripetuto che l'incapacità a testimoniare conseguente alla simultanea titolarità, in capo al teste, della qualità di parte, anche virtuale, può essere eccepita dalla parte interessata al momento dell'espletamento del mezzo di prova o nella prima difesa successiva, altrimenti la nullità dell'assunzione deve ritenersi definitivamente sanata per acquiescenza (Cass. 18 gennaio 2002, n. 543; Cass. 1° dicembre 2021, n. 37814; Cass. 12 gennaio 2006, n. 403; Cass. 25 settembre 2009, n. 20652; Cass., Sez. un., 23 settembre 2013, n. 21670; Cass. 10 ottobre 2014, n. 21395; Cass. 23 novembre 2016, n. 23896): o, più precisamente, subito dopo l'escussione del teste ovvero, in caso di assenza del difensore della parte alla relativa udienza, nella prima udienza successiva (Cass. 19 agosto 2014, n. 18036; Cass. 3 aprile 2007, n. 8358; Cass. 24 giugno 2003, n. 10006; Cass. 1° luglio 2002, n. 9553; Cass. 15 novembre 1999, n. 12634; Cass. 21 aprile 1999, n. 3962).


Ed è qui che l'eccezione di nullità, con la sua collocazione a ridosso dell'assunzione del mezzo, e, in alternativa, con il verificarsi della sanatoria, risponde ad un'esigenza - questa sì - di ordine pubblico processuale: l'esigenza di celerità del processo, i cui atti non devono essere passibili di caducazione per un tempo indefinito (p. es. Cass. 1° luglio 2002, n. 9553). Resta però salva l'eventualità, anch'essa inscritta nella previsione dell'art. 157, secondo comma, c.p.c., che, a tal momento, l'interessato sia incolpevolmente inconsapevole delle ragioni di incapacità del teste, nel qual caso l'eccezione va svolta nella prima difesa successiva all'acquisita conoscenza della nullità della testimonianza (Cass. 12 maggio 2004, n. 9061).


L'imposizione di un duplice onere di eccezione, prima dell'ammissione e dopo l'assunzione del mezzo cionondimeno ammesso - che taluno, come si accennava, ha a torto ritenuto irragionevolmente formalistica - si spiega non soltanto in ragione dell'impossibilità logica di configurare un'eccezione di nullità di un atto di là da venire, sicché «una eccezione d'incapacità a testimoniare ... non include l'eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione» (Cass. 19 agosto 2014, n. 18036), ma, soprattutto, a tutela dell'interesse della stessa parte che abbia formulato l'eccezione di incapacità a testimoniare, la quale, pure oppostasi inizialmente all'ammissione della testimonianza, deve essere posta in condizione di valutare l'esito dell'assunzione, che ben potrebbe rivelarsi ad essa favorevole (Cass. 15 febbraio 2018, n. 3763; Cass. 19 settembre 2013, n. 21443; Cass. 23 maggio 2013, n. 12784), situazione, quest'ultima, del tutto distinta da quella prima ricordata della parte che abbia tenuto in serbo l'eccezione di incapacità per giocare in extremis la carta della nullità secundum eventum. Ciò detto - bisogna aggiungere - è cosa ovvia che l'eccezione di nullità da proporsi ex post non richiede formule sacramentali, sicché non vi sarebbe modo di intendere altrimenti la dichiarazione della parte che, dopo l'assunzione, ribadisse l'iniziale eccezione di incapacità, o altro di simile.


17.4. L'eccezione di nullità della testimonianza resa da teste incapace ai sensi dell'art. 246 c.p.c. va infine coltivata con la precisazione delle conclusioni, di cui all'art. 189 c.p.c., intendendosi con ciò l'elencazione, effettuata in modo preciso e puntuale, sulla base di quanto emerso durante il corso della trattazione e dell'istruzione probatoria, delle domande ed eccezioni rivolte al giudice, ivi comprese le eventuali richieste istruttorie: precisazione delle conclusioni volta a fissare definitivamente l'ambito entro cui il giudice dovrà provvedere, fatto salvo quanto rilevabile d'ufficio, ma ancor prima, come bene evidenziato in dottrina, a soddisfare il dispiegamento del contraddittorio, nella sua espressione più ampia, ed in particolare l'esigenza di ciascuna parte di conoscere la formulazione definitiva delle domande dell'altra, contando sulla definitività di tale formulazione, quando ne compirà l'esame critico nello svolgimento degli scritti difensivi.

L'esigenza di reiterazione si ricollega alla previsione del terzo comma dell'art. 157 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha rinunciato «anche tacitamente», e si inquadra nella prospettiva di ordine generale - rafforzata dalla previsione di rinuncia tacita di cui si è appena detto - concernente il trattamento che riceve, in sede di precisazione delle conclusioni, la mancata riproposizione delle richieste istruttorie.


Costituisce difatti principio rimasto pacifico fino a tempi recentissimi quello secondo cui la parte che si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie ha l'onere di reiterarle in modo specifico, quando precisa le conclusioni, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, le stesse devono ritenersi abbandonate e non possono essere riproposte in sede di impugnazione (p. es. Cass. 25 gennaio 2022, n. 2129; Cass. 10 novembre 2021, n. 33103; Cass. 20 novembre 2020, n. 26523; Cass. 31 maggio 2019, n. 15029; Cass. 7 marzo 2019, n. 6590; Cass. 27 febbraio 2019, n. 5741; Cass. 3 agosto 2017, n. 19352; Cass. 10 agosto 2016, n. 16886; Cass. 4 agosto 2016, n. 16290; Cass. 27 aprile 2011, n. 9410; Cass. 14 ottobre 2008, n. 25157).


Questa Corte ha, cioè, escluso che la reiterazione delle richieste istruttorie possa consistere nel richiamo generico al contenuto dei precedenti atti difensivi, atteso che la precisazione delle conclusioni deve avvenire in modo specifico, coerentemente con la funzione sua propria di delineare con precisione il thema sottoposto al giudice e, come si diceva, di porre la controparte nella condizione di prendere posizione in ordine alle sole richieste istruttorie riproposte (Cass. 27 giugno 2012, n. 10748).

L'indirizzo, si può dire, risale all'entrata in vigore del codice di rito ed è stato sempre mantenuto fermo, quantunque si rinvengano delle oscillazioni delle quali non occorre dar conto, dal momento che esulano dai quesiti sollevati dall'ordinanza di rimessione, a seconda che il giudice avesse ammesso i mezzi richiesti, ne avesse negato l'ammissione ovvero avesse semplicemente taciuto. Tale orientamento ha da sempre il suo punto d'appoggio nell'art. 178, primo comma, c.p.c., e cioè nella regola che attribuisce al collegio le più ampie facoltà di controllo sulle ordinanze emesse dall'istruttore quando la causa gli è rimessa per la decisione. Quando la novella del 1950 introdusse il reclamo immediato al collegio, sorse la questione se, ove previsto il reclamo, la sua mancata proposizione comportasse o meno la decadenza dalla riproposizione delle richieste istruttorie in sede di rimessione della causa al collegio, decadenza che la giurisprudenza di questa Corte ha escluso, sempre tenendo però per fermo il principio che ricollega la decadenza alla mancata riproposizione in sede di precisazione delle conclusioni. Quando, poi, la novella del 1990 ha eliminato il reclamo al collegio, l'indirizzo pregresso è stato ribadito. È da richiamare, in particolare, Cass. 24 novembre 2004, n. 22146, concernente proprio eccezione di nullità della testimonianza resa da teste incapace, la quale, riproponendo l'orientamento formatosi nell'epoca in cui era previsto il reclamo al collegio, ha ribadito - seguendo, è stato detto in dottrina, una «interpretazione coerente e razionale delle norme e dei principi ratione temporis invocabili in subiecta materia» - che «la parte che si oppone ad una prova testimoniale, oltre a dovere tempestivamente sollevare detta sua eccezione, deve poi dolersene anche in sede di precisazione delle conclusioni, chiedendo la revoca dell'ordinanza ammissiva (o non ammissiva) della prova ai sensi dell'art. 178, comma 1, c.p.c., perché il giudice cui compete la decisione di tutta la causa provveda a detta revoca dell'ordinanza, restando in caso contrario preclusa la possibilità di decidere in ordine all'ammissibilità (o inammissibilità) della prova e così provvedere all'eventuale revoca dell'ordinanza, con l'ulteriore conseguenza che la cennata questione non può neanche essere proposta in sede d'impugnazione (Cass. n. 12280 del 2000; Cass. 24 agosto 1991, n. 9083; Cass. 30 marzo 1995, n. 3773)».


È il caso di accennare che l'art. 178 c.p.c. non è toccato dalla riforma di cui al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, ed il congegno della precisazione delle conclusioni si è per altro verso rafforzato, essendo prevista dall'art. 189 c.p.c. un apposita memoria scritta, il che dovrebbe neutralizzare il vero problema - al quale talune recenti soluzioni largheggianti parrebbero infine rispondere negando la stessa esigenza che le conclusioni siano precisate in modo preciso e puntuale - dell'udienza di precisazione delle conclusioni, che è momento centrale e fondamentale del processo e, proprio in funzione dell'esigenza di precisione e puntualità, richiede l'intervento di un difensore che conosca la causa, e non, come sovente accade nella pratica, di un ignaro sostituto che voglia adempiere al proprio compito di sostituzione con il riportarsi sciattamente a tutto quanto dianzi dedotto e prodotto, così da determinare probabilissime successive difficoltà di delimitazione di ciò a cui il concludente si sia in effetti riportato, sia per le controparti, sia per il giudice. Quanto al procedimento semplificato di cognizione, l'art. 281-terdecies c.p.c. rinvia all'art. 281-sexies c.p.c., secondo cui il giudice, «fatte precisare le conclusioni», adotta il modulo decisorio ivi previsto. Del resto, già con riguardo al procedimento c.d. sommario di cognizione questa Corte ha osservato che la deformalizzazione procedimentale non esime il giudice dal calendarizzare un'apposita udienza di precisazione delle conclusioni prima di pronunciare il provvedimento conclusivo, onde consentire la definitiva fissazione del thema decidendum (Cass. 14 maggio 2018, n. 11701).


In definitiva, considerata la previsione di rinuncia tacita di cui all'art. 157 c.p.c., considerato che le parti sono chiamate a precisare le conclusioni in modo preciso e puntuale in vista del dispiegamento del contraddittorio, e che l'art. 178, primo comma, c.p.c. stabilisce che esse possono proporre al collegio, quando la causa è rimessa a questo a norma dell'art. 189, tutte le questioni risolute da giudice istruttore con ordinanza revocabile, è del tutto ovvio che debbano, se ritengano di farlo, investire il giudice dell'eccezione di nullità della testimonianza ammessa ed assunta in violazione dell'art. 246 c.p.c., dovendosi altrimenti l'eccezione medesima reputare rinunciata.

In proposito, non può mancarsi di rammentare che l'interpretazione secondo cui l'istanza istruttoria non accolta nel corso del giudizio, che non venga riproposta in sede di precisazione delle conclusioni, deve reputarsi tacitamente rinunciata, non contrasta con gli artt. 47 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, né con gli artt. 2 e 6 dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, né con gli artt. 24 e 111 Cost., non determinando alcuna compromissione dei diritti fondamentali di difesa e del diritto ad un giusto processo, poiché dette norme processuali, per come interpretate, senza escludere né rendere disagevole il diritto di «difendersi provando», subordinano, piuttosto, lo stesso ad una domanda della parte che, se disattesa dal giudice dell'istruttoria, va rivolta al giudice che decide la causa (Cass. 27 giugno 2012, n. 10748; Cass. 5 febbraio 2019, n. 3229), secondo la prospettiva, appunto, fissata dall'art. 178 c.p.c.


Di recente, il principio di cui si è detto è stato ad altro riguardo apparentemente ribadito, ma con la precisazione che la mancata riproposizione delle richieste istruttorie porrebbe una mera presunzione di rinuncia, che potrebbe essere superata dal giudice di merito, qualora dalla non ulteriormente delimitata valutazione complessiva della condotta processuale della parte o dalla connessione della richiesta non riproposta con le conclusioni rassegnate e con la linea difensiva adottata nel processo, emerga una volontà inequivoca di insistere sulla richiesta pretermessa, attraverso l'esame degli scritti difensivi (Cass. 10 novembre 2021, n. 33103): ora, se dovesse farsi riferimento alle «conclusioni rassegnate», ed agli ulteriori larghi parametri menzionati, dovrebbero ritenersi riproposte, o comunque potrebbe non infondatamente predicarsi la riproposizione, di tutte le richieste istruttorie che posseggano un qualche pur approssimativo e lasco collegamento di strumentalità con le conclusioni, il che, come si accennava, comporterebbe una radicale nullificazione dell'esigenza di chiarezza e puntualità che da sempre sovrintende alla precisazione delle conclusioni definitive, ponendo anzitutto la controparte in condizione di doversi difendere da richieste in realtà solo ipotetiche, ed il giudice nella difficoltà di individuare ciò su cui deve provvedere, con evidenti conseguenze diseconomiche, tali da ripercuotersi poi pesantemente sul giudizio di appello.


A fondamento della soluzione sono richiamati precedenti concernenti il caso in cui la causa venga trattenuta in decisione senza che il giudice istruttore si sia pronunciato espressamente sulle istanze istruttorie (Cass. 19 febbraio 2021, n. 4487), eventualmente perché la causa sia stata trattenuta in decisione su una questione pregiudiziale di rito o preliminare di merito (Cass. 29 maggio 2012, n. 8576), nonché precedenti in tema di omessa riproposizione di domande ed eccezioni. E però, l'affermazione concernente l'omessa pronuncia da parte dell'istruttore sulle istanze istruttorie nulla dimostra per l'ipotesi fisiologica che il giudice abbia invece provveduto, in un modo o nell'altro. Quanto ai precedenti in materia di precisazione delle domande ed eccezioni, precedenti che costituiscono «il grosso» della tesi sostenuta, resta tutt'affatto da dimostrare che essi siano applicabili all'omessa riproposizione delle richieste istruttorie, governata dall'art. 178 c.p.c., equiparazione che anzi questa Corte ha espressamente escluso (in particolare Cass. 27 aprile 2011, n. 9410, poi ripresa da Cass. 27 giugno 2012, n. 10748).


Tuttavia, l'approfondimento del tema, nelle sue complessive dimensioni, esula dall'ambito di questa decisione, per la quale è sufficiente ribadire, in conformità alla giurisprudenza richiamata, che l'eccezione di incapacità, formulata prima dell'assunzione e ribadita dopo di essa, va necessariamente reiterata in sede di precisazione delle conclusioni dovendosi altrimenti reputare rinunciata: come si è detto, difatti, l'art. 157, terzo comma, c.p.c. stabilisce essere rinunciabile anche implicitamente l'eccezione di nullità della testimonianza, per il che, secondo quanto osservato, opera il combinato disposto di detta norma con il primo comma dell'art. 178 ed il primo comma dell'art. 189 c.p.c.


Sicché, si ripete, non v'è ragione, almeno a tal riguardo, di discostarsi dall'insegnamento, fermo quanto all'eccezione di nullità per incapacità a testimoniare, secondo cui essa va espressamente riproposta - il che, ovviamente, non vuol dire che non possa essere riproposta anche per relationem, se la relatio è univoca - in sede di precisazione delle conclusioni, essendo altrimenti rinunciata.


18. Passando all'esame del ricorso, occorre constatarne l'inammissibilità.


18.1. Ovvia conseguenza della configurazione della nullità nei termini indicati è che essa non possa formare oggetto di ricorso per cassazione se prima non sia stata fatta valere in grado d'appello (Cass. 23 novembre 2016, n. 23896; Cass. 19 marzo 2004, n. 5550; Cass. 20 aprile 1996, n. 3787).


Nel caso di specie risulta dalla sentenza appellata che con l'appello si fosse sostenuta la tesi della non incapacità a testimoniare della S., sia perché integralmente risarcita, sia perché il suo diritto al risarcimento si era comunque prescritto, né dal ricorso risulta che, dopo la formulazione da parte dell'assicuratore dell'eccezione di incapacità della teste, la questione della proposizione dell'eccezione di nullità dopo la sua assunzione fosse stata in alcun modo sollevata.


Quanto alla censura concernente l'attendibilità del teste S., essa investe in pieno il merito della valutazione riservata al giudice, appunto, del merito (Cass. 6 maggio 1978, n. 2177; Cass. 26 febbraio 1983, n. 1496; Cass. 1° luglio 1986, n. 4346).


18.2. Il secondo e terzo mezzo sono inammissibili.


Disporre consulenza tecnica d'ufficio, almeno nel caso della consulenza c.d. deducente, quale quella nella specie richiesta, è potere discrezionale affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, potendo la motivazione dell'eventuale diniego di ammissione del mezzo essere anche implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato (tra le moltissime Cass. 13 gennaio 2020, n. 326): nel caso considerato, a fronte della tesi di parte attrice-appellante, secondo cui il sinistro sarebbe stato cagionato da un veicolo rimasto sconosciuto, che aveva urtato il ciclomotore condotto dal G.A., risulta dalla sentenza impugnata che la parte posteriore del ciclomotore ed in particolare la targa non mostrava segni d'urto, constatazione più che sufficiente ad escludere l'opportunità di dar corso all'accertamento tecnico in discorso.


19. Nell'interesse della legge, ai sensi dell'art. 363 c.p.c., vanno affermati i seguenti principi di diritto:


«L'incapacità a testimoniare disciplinata dall'art. 246 c.p.c. non è rilevabile d'ufficio, sicché, ove la parte non formuli l'eccezione di incapacità a testimoniare prima dell'ammissione del mezzo, detta eccezione rimane definitivamente preclusa, senza che possa poi proporsi, ove il mezzo sia ammesso ed assunto, eccezione di nullità della prova».


«Ove la parte abbia formulato l'eccezione di incapacità a testimoniare, e ciò nondimeno il giudice abbia ammesso il mezzo ed abbia dato corso alla sua assunzione, la testimonianza così assunta è affetta da nullità, che, ai sensi dell'art. 157 c.p.c., l'interessato ha l'onere di eccepire subito dopo l'escussione del teste ovvero, in caso di assenza del difensore della parte alla relativa udienza, nella prima udienza successiva, determinandosi altrimenti la sanatoria della nullità».


«La parte che ha tempestivamente formulato l'eccezione di nullità della testimonianza resa da un teste che si assume essere incapace a testimoniare, deve poi dolersene in modo preciso e puntuale anche in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi altrimenti ritenere l'eccezione rinunciata, così da non potere essere riproposta in sede d'impugnazione».


20. Le spese meritano di essere compensate, tenuto conto delle peculiarità sostanziali e processuali della controversia. Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato se dovuto.


P.Q.M.


dichiara inammissibile il ricorso ed enuncia nell'interesse della legge i principi indicati in motivazione, disponendo l'integrale compensazione delle spese di questo giudizio di legittimità e dichiarando, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, che sussistono i presupposti per il versamento, a carico della parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.


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2023-04-26 Chi: Cassazione Fonte: cassazione








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