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Accanimento terapeutico    

Papa Francesco: no all'accanimento terapeutico

Era ora che lo si ribadisse
16.11.2017 - pag. 93917 print in pdf print on web

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Su Civile.it sono stato sempre molto diffidente verso chi restringeva la nozione di accanimento terapeutico al punto da far vivere a tutti i costi qualcuno nella sofferenza, senza prospettive di nessun tipo.

Sono stato anche diffidente verso coloro che dicevano: meglio morire che questa vita. Vuol dire che tutti quelli che sono accanto a loro se ne fregano della sua malattia e non lo aiutano. Non è facile. In Italia spesso disumano. Ovunque è eroismo.

Lascio ora le parole a Papa Francesco.

"Papa Pio XII, in un memorabile discorso rivolto 60 anni fa ad anestesisti e rianimatori, affermò che non c’è obbligo di impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili e che, in casi ben determinati, è lecito astenersene". Lo ricorda Papa Francesco nel messaggio ai partecipanti al meeting regionale europeo della World medical association.

"È dunque moralmente lecito- prosegue- rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito ‘proporzionalità delle cure’. L’aspetto peculiare di tale criterio è che prende in considerazione ‘il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali’ (ibid.). Consente quindi di giungere a una decisione che si qualifica moralmente come rinuncia all’’accanimento terapeutico’”."

Con altre parole Giovanni Paolo II chiese a tutti di lasciarlo andare alla casa del Padre, dopo anni di sofferenze.

"Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire"

Dal testo originale:

"Vediamo bene, infatti, che non attivare mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso, equivale a evitare l’accanimento terapeutico, cioè compiere un’azione che ha un significato etico completamente diverso dall’eutanasia, che rimane sempre illecita, in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte.

Certo, quando ci immergiamo nella concretezza delle congiunture drammatiche e nella pratica clinica, i fattori che entrano in gioco sono spesso difficili da valutare. Per stabilire se un intervento medico clinicamente appropriato sia effettivamente proporzionato non è sufficiente applicare in modo meccanico una regola generale. Occorre un attento discernimento, che consideri l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. La dimensione personale e relazionale della vita – e del morire stesso, che è pur sempre un momento estremo del vivere – deve avere, nella cura e nell’accompagnamento del malato, uno spazio adeguato alla dignità dell’essere umano. In questo percorso la persona malata riveste il ruolo principale. Lo dice con chiarezza il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità» (ibid.). È anzitutto lui che ha titolo, ovviamente in dialogo con i medici, di valutare i trattamenti che gli vengono proposti e giudicare sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta, rendendone doverosa la rinuncia qualora tale proporzionalità fosse riconosciuta mancante. È una valutazione non facile nell’odierna attività medica, in cui la relazione terapeutica si fa sempre più frammentata e l’atto medico deve assumere molteplici mediazioni, richieste dal contesto tecnologico e organizzativo.

...

Nella complessità determinata dall’incidenza di questi diversi fattori sulla pratica clinica, ma anche sulla cultura della medicina in generale, occorre dunque tenere in assoluta evidenza il comandamento supremo della prossimità responsabile, come chiaramente appare nella pagina evangelica del Samaritano (cfr Luca 10, 25-37). Si potrebbe dire che l’imperativo categorico è quello di non abbandonare mai il malato. L’angoscia della condizione che ci porta sulla soglia del limite umano supremo, e le scelte difficili che occorre assumere, ci espongono alla tentazione di sottrarci alla relazione. Ma questo è il luogo in cui ci vengono chiesti amore e vicinanza, più di ogni altra cosa, riconoscendo il limite che tutti ci accumuna e proprio lì rendendoci solidali. Ciascuno dia amore nel modo che gli è proprio: come padre o madre, figlio o figlia, fratello o sorella, medico o infermiere. Ma lo dia! E se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione, della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte. In questa linea si muove la medicina palliativa. Essa riveste una grande importanza anche sul piano culturale, impegnandosi a combattere tutto ciò che rende il morire più angoscioso e sofferto, ossia il dolore e la solitudine.


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