Diritto Tributario

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A cura dell'avv. Franco Ionadi e del dott. Spataro



La giurisprudenza tributaria di legittimità nell'anno 2010


2011-03-09
abstract: Testo tratto dalla relazione della Suprema Corte

Segnalato da Franco Ionadi


I

Il testo integrale è disponibile qui 

 

Diritto tributario: abuso del diritto; aiuti di Stato; imposte dirette e Iva; Irap; contenzioso.

Nell’anno decorso la Corte ha avuto occasione di ribadire i principi in tema di abuso del diritto in materia tributaria enunciati dalle Sezioni unite nella sentenza n. 30055 del 2008.

In particolare, con la sentenza n. 4737 (sez. V) si è ribadito che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo applicabile anche ai tributi non armonizzati (e, quindi, alle imposte sui redditi), il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un'agevolazione o un risparmio d'imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l'operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Esso comporta il disconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere al solo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali e la conseguente inopponibilità di essi all'Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall'operazione elusiva, anche se esso sia diverso da quelli tipici eventualmente presi in considerazione da specifiche norme antielusive entrate in vigore in epoca successiva al compimento dell'operazione. In applicazione del principio, la Corte ha ritenuto inopponibili all'Amministrazione finanziaria i contratti, tra loro coordinati, attraverso i quali una società sportiva, nell'ingaggiare un atleta, aveva pattuito per le prestazioni di quest'ultimo un compenso, del quale una parte costituiva oggetto del contratto ufficialmente stipulato con l'atleta, un'altra costituiva oggetto di un contratto simulato di sfruttamento di immagine stipulato con una società cessionaria dei diritti di immagine medesimi. La sentenza n. 12249 (sez. V) ha ritenuto che, in tema di IVA, la stipulazione di un contratto di comodato con cui una società per azioni, proprietaria di un complesso sportivo insistente su terreno demaniale, lo conceda in uso ad un'associazione polisportiva senza altro corrispettivo che l'assunzione dell'onere del canone demaniale, il pagamento di un modesto rimborso spese forfetario ed il trasferimento alla società delle entrate lorde dell'associazione, traducendosi nella sostituzione di un soggetto non imprenditore a quello originariamente titolare nell'esercizio di un'attività svolta attraverso un complesso organizzato di beni e servizi costituente un'azienda, pone a carico del soggetto che ne invochi l'operatività a fini fiscali l'onere di fornire la prova rigorosa che tale inconsueta regolamentazione negoziale non risponde essenzialmente alla finalità di conseguire un risparmio d'imposta, ma trova giustificazione in rilevanti ed evidenti ragioni economiche, dovendo altrimenti riconoscersi la natura abusiva dell'operazione, con la 66 conseguente esclusione della sua opponibilità all'Amministrazione finanziaria. Infine, con la pronuncia

n. 20029 (sez. V) si è affermato che integra gli estremi del comportamento abusivo quell'operazione economica che, tenuto conto sia della volontà delle parti implicate, che del contesto fattuale e giuridico, ponga quale elemento predominante ed assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale ove quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi di imposta. La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull'Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l'onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate. Nella fattispecie l'Ufficio aveva contestato alla società contribuente di aver simulato la conclusione di contratti di soccida con diversi allevatori per eludere le limitazioni imposte dalla normativa comunitaria in tema di quote latte e la Corte, pur condividendo il rilievo della deviazione dallo schema tradizionale della soccida, quale contratto associativo agrario, non ha ritenuto configurabile l'abuso del diritto in quanto non era stato provato dall'ufficio il vantaggio fiscale che sarebbe derivato alla società dalla manipolazione degli schemi contrattuali classici.

In materia di aiuti di Stato, le sentenze nn. 23418 e 26286 (sez. V), in tema di agevolazioni fruite dalle società per azioni a prevalente capitale pubblico, istituite ai sensi dell’art. 22 della legge n. 142 del 1990 per la gestione dei servizi pubblici locali, agevolazioni giudicate incompatibili con il diritto comunitario in quanto aiuti di Stato con la decisione della Commissione europea n. 2003/193/CE, hanno stabilito il principio secondo cui la normativa nazionale riguardante gli effetti del decorso del tempo sui rapporti giuridici deve essere disapplicata per contrasto con il principio di effettività proprio del diritto comunitario qualora tale normativa impedisca il recupero di un aiuto di Stato dichiarato incompatibile con decisione della Commissione divenuta definitiva.

Va infine ricordata l’ordinanza n. 18055 (sez. V), con la quale la Corte, in relazione alla disciplina di definizione agevolata delle liti fiscali pendenti innanzi alla Corte di cassazione ed alla Commissione tributaria centrale, prevista dall'art. 3, comma 2 bis, del d.l. 25 marzo 2010, n. 40, convertito con modificazioni nella legge 22 maggio 2010, n. 73, ha sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea varie questioni pregiudiziali attinenti alla compatibilità di detta normativa con il principio del contrasto all'abuso del diritto in materia fiscale, con il principio di non discriminazione e la disciplina in materia di aiuti di Stato e con il principio di effettività dell'applicazione del diritto comunitario.

In tema di imposte dirette ed IVA, con riguardo alla soggettività passiva d’imposta con riguardo al requisito territoriale, si è affermato (in materia di IRPEF) che l'iscrizione del cittadino nell'anagrafe dei residenti all'estero non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, allorché il soggetto abbia nel territorio dello Stato il proprio domicilio, 67

inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali, non risultando determinante, a tal fine, il carattere soggettivo ed elettivo della "scelta" dell'interessato, rilevante solo quanto alla libertà dell'effettuazione della stessa, ma non ai fini della verifica del risultato di quella scelta, dovendosi contemperare la volontà individuale con le esigenze di tutela dell'affidamento dei terzi, per cui il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi (sent. n. 14434 della sez. V); e, analogamente, in materia di imposta sul valore aggiunto, è stato ritenuto che l'art. 7, terzo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, considera effettuate nel territorio dello Stato le prestazioni di servizi rese da soggetti che nello stesso hanno il domicilio, tale intendendosi, ai sensi dell'art. 43 cod. civ., il luogo dove il soggetto ha la sede dei suoi affari ed interessi ed essendo questi ultimi comprensivi anche della sfera dei rapporti personali e non solo economici, con la conseguenza che sono soggette all'imposta le prestazioni sportive rese da un atleta che, avendo fissato all'estero la propria residenza, si rechi, sempre all'estero, ma in luoghi diversi, per partecipare alle varie competizioni, vivendo però negli altri periodi nella propria abitazione sita nel territorio dello Stato (sent. n. 11186 della sez. V). Infine, la sentenza n. 12834 (sez. V) ha affermato il principio secondo cui, in tema di IVA, le attività di consulenza effettuate all'estero e relative ad immobili situati nel territorio italiano devono ritenersi imponibili in Italia, ai sensi dell'art. 7, comma 4, lett. a), del d.P.R. n. 633 del 1972 che, nel riferirsi alle prestazioni di servizio, ricomprende anche le consulenze. In tema di

IRAP, la sentenza n. 16784 (sez. V) ha chiarito, con riguardo alla assoggettabilità ad imposta degli studi associati, che, ai sensi dell’art. 3, comma 1, lett. c), del d.lgs. n. 446 del 1997, tra i soggetti passivi dell’imposta sono individuati espressamente le società semplici esercenti arti e professioni e quelle ad esse equiparate a norma dell’art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986, vale a dire "le associazioni senza personalità giuridica costituite fra persone fisiche per l’esercizio in forma associata di arti e professioni": ne consegue che l’attività esercitata da tali soggetti, strutturalmente organizzati per la forma nella quale l’attività stessa e’ svolta, costituisce ex lege presupposto d’imposta, prescindendosi dal requisito dell’autonoma organizzazione.

Con le sentenze nn. 21122, 21123 e 21124 (sez. V), si è affermato il principio secondo il quale, così come era già stato stabilito dalle Sezioni unite per gli agenti di commercio ed i promotori finanziari, anche - ed a maggior ragione - per la categoria dei piccoli imprenditori, di cui all’art. 2083 del codice civile (coltivatori diretti, artigiani, piccoli commercianti, ecc.), deve escludersi l’assoggettamento ad imposta ope legis, con piena assimilazione, pertanto, di detti soggetti ai lavoratori autonomi, non potendosi escludere che un piccolo imprenditore sia dotato di una organizzazione minimale di beni strumentali e non si avvalga – se non occasionalmente – di lavoro altrui. Con riguardo ai

tributi locali, in tema di ICI, le sentenze nn. 2941 e 10571 (sez. V) hanno ribadito il principio secondo il quale, ai sensi dell'art. 5, comma 4, del d.lgs. 30 dicembre 68

1992, n. 504, la rendita considerata dal contribuente quando non esista una rendita definitiva, ovvero quando quella esistente non sia più valida per essere intervenute variazioni permanenti su essa incidenti, ha un valore provvisorio ed il Comune, a seguito dell'attribuzione della rendita definitiva, può, a norma dell'art. 11 del d.lgs. n. 504 cit., liquidare per tutto il periodo considerato l'eventuale maggiore imposta rispetto a quella emergente dalla rendita provvisoria. Con la sentenza n. 15447 (sez. V) si è poi stabilito che la concessione all'IACP di aree espropriate dai comuni per la realizzazione di programmi di edilizia residenziale pubblica, ai sensi dell'art. 10 della legge n. 167 del 1962, come sostituito dall'art. 35 della legge n. 865 del 1971, attribuisce al medesimo IACP il diritto di superficie, ovvero le facoltà ad esso riconducibili, sulle aree su cui il concessionario costruisce gli alloggi di edilizia economica e popolare, e rende, quindi, quest'ultimo soggetto passivo dell'imposta, ex art. 3 del d.lgs. n. 504 del 1992, non occorrendo, a tal fine, un ulteriore atto costitutivo del diritto di superficie, in quanto l'incontro delle volontà dei due soggetti rileva su un diverso piano. In tema di imposta sulla pubblicità, infine, con la sentenza n.

16722 (sez. V) la Corte ha chiarito che l'esenzione prevista per le insegne relative all'esercizio di attività commerciali che contraddistinguono la sede dell'impresa e non superino la superficie complessiva di cinque metri quadrati, introdotta dall’art. 10 della legge n. 448 del 2001, deve essere applicata non solo alle attività esercitate dall'imprenditore ma anche a quelle svolte dal libero professionista (nella fattispecie, avvocato), atteso che, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata, l'esclusione dall'ambito applicativo della norma delle targhe degli studi professionali risulterebbe in contrasto con la finalità, perseguita dalla legge, di sottrarre ad imposizione le indicazioni aventi lo scopo prevalente di identificare il luogo di esercizio di una attività economica, secondo l'ampia nozione d'impresa desumibile dalla consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia, distinguendolo da quelli concorrenti.

La sentenza delle Sezioni Unite n. 8313 ha stabilito che l'affidamento, da parte dell'ente locale, della gestione dei rifiuti urbani ad un gestore esterno, ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, non comporta, né consente, il trasferimento del potere di determinare la tariffa prevista dal successivo art. 49, sia perché deve essere l'ente impositore, assumendosene la responsabilità politica, ad individuare il gettito ritenuto sufficiente per la gestione del servizio da affidare a terzi, sia perché, altrimenti, operando il gestore in regime di monopolio, la tariffa sarebbe sostanzialmente determinata al di fuori di ogni tipo di controllo, sia quello privato della concorrenza, sia quello politico. Con riguardo al

contenzioso tributario, con le sentenze nn. 3674 e 3676 le Sezioni unite hanno chiarito che, a seguito della sentenza della Corte di Giustizia CE del 17 luglio 2008, in causa C-132/06, con la quale, in esito ad una procedura di infrazione promossa dalla Commissione Europea, è stata dichiarata l'incompatibilità con il diritto comunitario (in particolare con gli artt. 2 e 22 della VI direttiva n. 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977) degli artt. 8 e 9 della legge n. 289 del 2002, nella parte in cui prevedono la condonabilità dell'IVA alle condizioni ivi indicate, va disapplicato (limitatamente ai crediti per 69

IVA), alla stregua di una interpretazione adeguatrice della citata pronuncia, l'art. 12 della legge n. 289 del 2002, nella parte in cui consente di definire una cartella esattoriale con il pagamento del 25% dell'importo iscritto a ruolo, in quanto comporta una rinuncia definitiva dell'Amministrazione alla riscossione di un credito già definitivamente accertato; invece, ad analoga conclusione non deve pervenirsi in ordine all'art. 16 della stessa legge n. 289, il quale prevede la definizione delle liti pendenti e le relative condizioni, nonché la sospensione dei termini di impugnazione, poiché esso non comporta una rinuncia dell'Amministrazione all'accertamento dell'imposta (già effettuato e contestato nella sua legittimità), bensì la definizione di una lite in corso con il contribuente, in funzione della riduzione del contenzioso in atto, secondo parametri rapportati allo stato della lite al momento della domanda di definizione, garantendo la riscossione di un credito tributario incerto, sulla base di un trattamento paritario tra i contribuenti.

In tema di motivazione della cartella di pagamento, con la sentenza delle Sezioni Unite n. 11722 si è affermato che qualora essa non segua uno specifico atto impositivo già notificato al contribuente, ma costituisca il primo ed unico atto con il quale l'ente impositore esercita la pretesa tributaria, deve essere motivata alla stregua di un atto propriamente impositivo, e contenere, quindi, gli elementi indispensabili per consentire al contribuente di effettuare il necessario controllo sulla correttezza dell'imposizione: tale motivazione può essere assolta per relationem ad altro atto che costituisca il presupposto dell'imposizione, del quale, tuttavia, debbono comunque essere specificamente indicati gli estremi, anche relativi alla pubblicazione dello stesso su bollettini o albi ufficiali che eventualmente ne sia stata fatta ai sensi di legge, affinché il contribuente ne abbia conoscenza o conoscibilità e l'atto richiamato, quando di esso il contribuente abbia già integrale e legale conoscenza per effetto di precedente notificazione o pubblicazione, non deve essere necessariamente allegato alla cartella - secondo una interpretazione non puramente formalistica dell'art. 7, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. Statuto del contribuente) - sempre che in essa siano indicati i relativi estremi di notificazione o di pubblicazione. In mancanza di detta indicazione, tuttavia, il difetto di motivazione non può condurre alla dichiarazione di nullità, allorché la cartella sia stata impugnata dal contribuente il quale, da un lato, abbia dimostrato in tal modo di avere piena conoscenza dei presupposti dell'imposizione, per averli puntualmente contestati, e, dall’altro, abbia omesso di allegare e specificamente provare quale sia stato in concreto il pregiudizio che il vizio dell'atto abbia determinato al suo diritto di difesa.


2011-03-09 Segnalato da Franco Ionadi








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