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"Non esiste denuncia senza responsabilità" - Zavattini



Mantenimento    

L'assegno di mantenimento

Ringraziamo l'autore per l'autorizzazione alla pubblicazione gratuita su questo sito.
12.12.2006 - pag. 39772 print in pdf print on web

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di avv. Matteo Santini - studiolegalesantini chicciola hotmail.com

L’assegno di mantenimento è un istituto previsto dal Codice civile all’articolo 156, secondo cui “il giudice, pronunziando la separazione, stabilisce a carico del coniuge cui non sia addebitabile la separazione, il diritto di ricevere dall’altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri”.

Per comprendere a pieno la ratio dell’istituto occorre innanzitutto rilevare che la separazione ha carattere temporaneo, ben potendo i coniugi decidere di riconciliarsi. È proprio questo carattere di “precarietà” che non fa venir meno quanto disposto dall’articolo 143 c.c. e che, quindi, permette di considerare ancora esistente un vincolo di solidarietà morale e materiale che lega i coniugi, anche se giudizialmente separati.

In secundis, il legislatore, nell’introdurre la disposizione di cui all’articolo 156, ha posto particolare attenzione a ciò che, fino a pochi decenni fa, avveniva nella prassi di molte famiglie italiane: frequentemente, di fatti, un coniuge, e segnatamente la moglie, era solito rinunciare alle sue aspirazioni lavorative e di crescita professionale per concentrarsi unicamente sull’educazione dei figli e sull’andamento “domestico”. In quest’ottica il legislatore ha, correttamente, ritenuto di salvaguardare il soggetto che avesse effettuato, d’accordo con il coniuge, una simile scelta e di permettergli, in caso di separazione, di non dover subire unicamente egli stesso gli effetti pregiudizievoli di tale decisione.

Venendo ai presupposti che devono concorrere affinché il giudice si determini a concedere l’assegno di mantenimento, essi sono tre (Cass. Civ. 12.12.2003 n. 19042; Cass. Civ. 18.09.2003 n. 13747; Cass. Civ. 08.08.2003 n. 11965; Cass. Civ. 19.03.2003 n. 4039):

  • la non addebitabilità della separazione al coniuge nel cui favore viene disposto il mantenimento;

  • la mancanza per il beneficiario di adeguati redditi propri;

  • la sussistenza di una disparità economica tra i due coniugi.

Occorre concentrarsi su cosa il legislatore abbia inteso parlando di “reddito”. Certamente il termine reddito è stato utilizzato nella sua accezione più ampia. Il riferimento va, innanzitutto, al denaro ma si intendono comprese anche altre utilità differenti dal denaro, purché economicamente valutabili (Cass. Civ. 03.10.2005 n. 19291; Cass. Civ. 06.05.1998 n. 4543; Cass. Civ. 30.01.1992, n. 961). A titolo esemplificativo, il giudice dovrà tener conto anche dei beni immobili posseduti, sia dal punto di vista del valore implicito che essi hanno, sia dal punto di vista del ricavato di una eventuale locazione o vendita degli stessi; dei crediti di cui il coniuge obbligato sia ancora titolare; dei risparmi investiti o produttivi; della disponibilità della casa coniugale etc…( sull’argomento vedi Cass. Civ. 29.11.1990 n. 11523; Cass. Civ. 20.02.1986 n. 1032, Cass. Civ. 14.08.1997 n. 7630; Cass. Civ. 04.04.1998 n. 3490).

La reale difficoltà nell’applicazione di questo articolo risiede nell’esigenza di trovare un parametro in base al quale valutare l’inadeguatezza dei redditi propri di un coniuge.

Per molto tempo si è ritenuto che il fondamento per l’erogazione dell’assegno di mantenimento fosse la necessità di assicurare al coniuge beneficiario un tenore di vita pari o almeno simile a quello che possedeva in costanza di matrimonio.

Una impostazione di tale tipo era soggetta a diverse critiche e perplessità.

Innanzitutto, la prima è di ordine logico – pratico: ben si sa che la convivenza ha riflessi economicamente positivi. Vi è, di fatti, la possibilità di ammortizzare le spese, di dividerle equamente. Il mantenimento di un determinato tenore di vita risulta certamente più facile se a contribuire alle casse del nucleo familiare vi sono due soggetti, con due stipendi che si cumulano.

Nel caso di separazione, certamente le spese si raddoppiano: basti pensare alla necessità, per il coniuge che non benefici della casa coniugale, di cercarsi una nuova sistemazione, con le conseguenti spese per l’affitto e per la gestione dell’alloggio. È ovvio che, in una situazione di tale tipo, caratterizzata da un sicuro aumento delle spese, non sarà facilmente ipotizzabile la possibilità di mantenere lo stesso standard di vita che si aveva in regime di comunione. E questo vale sia per il coniuge obbligato che per il coniuge beneficiario. Se si accetta questa ricostruzione, non si può non notare come sarebbe eccessivamente penalizzante per il coniuge obbligato assicurare al coniuge beneficiario il medesimo stile di vita che si aveva durante il matrimonio.

Inoltre, si devono considerare le ipotesi in cui i coniugi, in costanza di matrimonio, avevano un tenore di vita eccessivo rispetto alle proprie possibilità: anche in questa ipotesi sarebbe depenalizzante imporre al coniuge obbligato di assicurare che il coniuge beneficiario conservi il medesimo tenore di vita, proprio perché eccessivo.

Ancora, ben può accadere che i coniugi decidano di avere un tenore di vita ridotto, minore alle proprie potenzialità, per esempio investendo e risparmiando capitale; in questa ipotesi, la regola del mantenimento del medesimo tenore di vita suona quanto mai iniqua, in questo caso a sfavore del coniuge beneficiario (Cass. Civ. 04.04.1998 n.3490).

La giurisprudenza, in tempi recenti, ha provveduto a individuare un parametro di riferimento sicuramente più corretto; “il giudice di merito deve anzitutto accertare il tenore di vita dei coniugi durante il matrimonio, per poi verificare se i mezzi economici a disposizione del coniuge gli permettano di conservarlo indipendentemente dalla percezione di detto assegno e, in caso di esito negativo di questo esame, deve procedere alla valutazione comparativa dei mezzi economici a disposizione di ciascun coniuge al momento della separazione” (Cass. Civ. 12.06.2006 n. 13592).

Quindi, il punto di osservazione da cui parte il giudice nel determinare l’an e il quantum dell’assegno si modifica: non si cerca più di assicurare il mantenimento delle medesime condizioni economiche ma si cerca di “equilibrare” le effettiva capacità economiche dei coniugi; si deve, perciò, in primis verificare se sussiste un disequilibro economico tra i due coniugi; laddove tale squilibrio effettivamente ci sia, il giudice determina il quantum più idoneo per livellarlo.

Proprio a tal fine, è risultato utile quanto disposto dal secondo comma dell’art. 156 che impone al giudice di determinare l’entità dell’assegno in relazione, oltre che al reddito, anche alle “circostanze”. Ed è proprio grazie a questo termine che il giudice può valutare una serie di elementi fattuali che, anche se non propriamente reddituali, hanno comunque capacità di influire sul reddito di una delle parti (vedi, per esempio, la circostanza dell’aumento delle spese fisse) (Cass. Civ. 30.03.2005 n. 6712). Un esempio su tutti: l’attitudine a lavorare è sicuramente una circostanza che il giudice deve valutare, nel senso che, laddove il coniuge beneficiario sia nella concreta possibilità di svolgere un’attività lavorativa retributiva (tenendo in considerazione l’età, la situazione del mercato del lavoro del luogo in cui vive il coniuge, l’esperienza lavorativa o professionale pregressa, il tempo intercorso dall’ultima prestazione di lavoro, la situazione di salute del medesimo, i condizionamenti posti dalla cura e dalla crescita della prole) tale circostanza andrà ad incidere sulla quantificazione dell’assegno, certamente comportando un decremento dello stesso (Cass. Civ. 02.07.04 n. 12121; Cass. Civ. 19.03.2002 n. 3975).

Naturalmente non si richiede una valutazione aritmetica dei redditi ma solo una analisi volta ad accertarne l’ammontare complessivo approssimativo, un’attendibile ricostruzione delle situazioni patrimoniali di entrambi i coniugi (Cass. Civ.28.04.2006 n.9878; Cass. Civ. 19.03.2002 n. 3974; Cass. Civ. 09.03.1998 n. 2583). In questa analisi, il giudice dovrà tenere conto anche di eventuali maggiorazioni o diminuzioni che il patrimonio del coniuge obbligato ha subito nelle more del giudizio di separazione, proprio perché, come già accennato, la separazione personale non fa venir meno la solidarietà economica che lega i coniugi durante il matrimonio e che comporta la condivisione delle reciproche fortune e sfortune (Cass. Civ. 07.02.2006 n. 2626; Cass. Civ. 24.12.2002 n. 18327; Cass. Civ. 03.12.2002 n. 17103; Cass. Civ. 11.09.1998 n. 9028; Cass. Civ. 22.04.1998 n. 4094).

In merito all’accertamento che deve condurre il giudice, il coniuge beneficiario non ha l’onere di fornire all’organo giudiziario la prova specifica e diretta del disequilibrio atto a giustificare l’erogazione dell’assegno, essendo sufficiente che deduca anche implicitamente tale differenza economica. Naturalmente il coniuge obbligato ha la possibilità di contestare il preteso squilibrio, indicando beni e proventi che evidenzino l’infondatezza della domanda (Cass. Civ. 27.08.2004 n. 17136).

Nel caso in cui i coniugi non forniscano gli elementi necessari e sufficienti affinché il giudice svolga l’indagine su descritta, si ritiene possa applicarsi, stante l’identità di ratio tra i due istituti, quanto previsto dall’art. 5, comma 9, L. 898/70, nel testo novellato dall’art. 10 della L. 74/1987, secondo cui, in tema di riconoscimento e determinazione dell’assegno divorziale, “in caso di contestazioni, il tribunale dispone indagini sui redditi e patrimoni dei coniugi e sul loro effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria” (Cass. Civ. 17.05.2005 n. 10344).

Si discute, sia in dottrina che in giurisprudenza, sulla rinuziabilità o meno dell’assegno di mantenimento. Da un lato, di fatti, vi è chi sostiene che l’assegno di mantenimento trova il suo fondamento nell’articolo 143 c.c. e, quindi, rientra tra i diritti e doveri dei coniugi inderogabili e, pertanto irrinunciabili. Ne consegue la nullità di qualsiasi pattuizione tramite la quale il coniuge, pur trovandosi nelle condizioni per beneficiare di detto assegno, vi abbia rinunciato.

Dall’altro lato, si sostiene che, così come i coniugi sono liberi di determinare il quantum dell’assegno, sono parimenti liberi di escludere pattizziamente la corresponsione dello stesso.

Ad avviso di chi scrive, una probabile risposta si può ricavare analizzando la distinzione tra assegno alimentare e assegno di mantenimento; mentre il primo, avendo la propria fonte nell’incapacità del coniuge che versa in stato di bisogno e che non è in grado di provvedere al proprio mantenimento, è espressamente irrinunciabile ex art. 447 c.c., il secondo, stante la mancanza di previsione espressa e la matrice assistenziale inerente al vincolo coniugale, si caratterizza dalla rinunciabilità. Possono, quindi, i coniugi decidere di non corrispondere alcun assegno di mantenimento, così come decidere di non corrisponderlo con periodicità ma versarlo una tantum, in un'unica soluzione. (Cass. Civ. 30.07.1997 n. 7127).

Da ultimo, l’articolo 5, comma 7, della legge 1 dicembre 1970 n. 898 (come modificato dall’articolo 10 della Legge 6 marzo 1987 n. 74), che ha introdotto la necessità di adeguamento ISTAT dell’assegno di divorzio, si ritiene sia applicabile anche all’assegno di mantenimento (Cass. Civ. 05.08.2004 n. 15101; Cass. Civ. 06.12.1999 n. 13610; Cass. Civ. 28.12.1995 n. 13131).








ASSEGNO DIVORZILE


L’assegno divorzile è stato introdotto con la legge 898 del 1970; l’articolo 5, così come modificato dalla L. 74 del 1987, di fatti, prevede che “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il Tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno, quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Innanzitutto occorre chiarire che il quantum dell’assegno di divorzio è determinato in base a criteri autonomi e distinti rispetto a quelli rilevanti per il trattamento economico del coniuge separato (Cass. Civ. 20.01.2006 n. 1203). Quindi, ai fine della quantificazione di detto assegno, risulta essere del tutto irrilevante la misura dell’assegno di mantenimento determinata in sede di separazione, posto che i presupposti e le funzioni sono diverse (Cass. Civ. 09.05.2002 n. 6641).

A tale proposito, la Suprema Corte ha chiarito che “la determinazione dell’assegno di divorzio, alla stregua dell’art. 5 l. 1 Dicembre 1970 n. 898, modificato dall’art. 10 l. 6 Marzo 1987 n. 74, è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, per accordo tra le parti e in virtù di decisione giudiziale, in vigenza di separazione dei coniugi, poiché, data la diversità delle discipline sostanziali, della natura, struttura e finalità dei relativi trattamenti, correlate e diversificate situazioni, e delle rispettive decisioni giudiziali, l’assegno divorzile, presupponendo lo scioglimento del matrimonio, prescinde dagli obblighi di mantenimento e di alimenti, operanti in regime di convivenza e di separazione, e costituisce effetto diretto della pronuncia di divorzio, con la conseguenza che l’assetto economico relativo alla separazione può rappresentare mero indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire elementi utili di valutazione” (Cass. Civ. 11.09.2001, n. 11575).

Anche per detto assegno, la finalità perseguita dal legislatore è stata marcatamente assistenziale, e cioè far si che le condizioni economiche del coniuge più debole non risultino deteriorate per il solo effetto del divorzio. Il legislatore ha, in sostanza, preso in considerazione l’ultrattività della solidarietà familiare e qualora, comparando la posizione attuale del richiedente l’assegno divorzile con quella goduta al tempo della costanza di matrimonio, emerga una situazione economicamente sperequativa e significativa, ricollegabile alla cessazione del matrimonio stesso, proprio in virtù della sua funzione assistenziale, ha considerato dovuto l’assegno di divorzio (Cass. Civ. 11.09.2001, n. 11575).

Per meglio comprendere questo assunto, occorre fare un passo indietro, analizzando le principali teorie in vigore prima della legge 74 del 1987.

Il legislatore del 1970 non si era espresso in proposito e la giurisprudenza aveva cercato di colmare questa lacuna, individuando una pluralità di criteri per l’attribuzione e la quantificazione dell’assegno divorziale (Cass. Civ. 09.07.1974 n. 2008; Corte Cost., 10.07.1975 n. 202). Accanto al profilo assistenziale, si individuava il profilo risarcitorio e il profilo compensativo dell’assegno di divorzio. Se, da un lato, tale pluralità di orientamenti aveva l’elemento positivo di permettere di adattare la funzione di tale erogazione pecuniaria ai diversi casi pratici, dall’altro lato portava con se l’inconveniente di lasciare eccessiva discrezionalità ai Tribunali, che troppo spesso arrivavano a soluzioni diametralmente opposte.

Per ovviare a tale incertezza, il legislatore del 1987 decise di chiarire espressamente i presupposti relativi all’an debeatur l’assegno di divorzio. Indica espressamente, nell’art. 10 di tale legge, che l’assegno va corrisposto quando un coniuge non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive. Si afferma, quindi, definitivamente, la natura assistenziale dell’assegno divorzile.

Comunque le incertezze interpretative permangono, spostandosi stavolta sui concetti di “mezzi adeguati” e “ragioni oggettive”.

Anche in questo settore, la giurisprudenza sembra aver seguito un iter molto simile a quello già analizzato in materia di separazione e assegno di mantenimento.

Di fatti, le prime pronunce giurisprudenziali tendevano a considerare quale parametro rilevante il tenore di vita in costanza di matrimonio, ritenendo quindi dovuto l’assegno ogni qualvolta il divorzio avesse inciso su di un coniuge apportando una riduzione (anche quantitativamente minima) del proprio standard di vita, rispetto a quello goduto durante il matrimonio (Cass. Civ. 17.03.1989 n. 1322; Cass. Civ. 29.11.1990 n. 11490).

Solo in tempi relativamente recenti si è, correttamente, modificato tale orientamento: l’assegno di divorzio, stante proprio la sua funzione assistenziale, serve a tutelare l’ex coniuge che si trovi in una debolezza economica tale da non potersi permettere un tenore di vita autonomo e dignitoso, anche se totalmente distaccato da quello che si aveva in costanza di matrimonio (Cass. Civ. 12.03.1990 n. 1652; Cass. Civ. 01.12.1993 n. 11860).

Quindi, la prima valutazione che il giudice è chiamato a fare riguarda l’an e ruota attorno all’inadeguatezza dei mezzi, da intendersi come insufficienza dei medesimi, comprensivi di redditi, cespiti patrimoniali e altre utilità di cui si dispone il coniuge richiedente (Cass. Civ. 15.01.1998 n. 317) e all’impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive. Laddove tale valutazione dia esito positivo (inteso nel senso su esposto, e cioè lasci presumere che il coniuge istante non possa assicurare a sé un tenore di vita dignitoso), il giudice deve procedere a determinare il quantum, prendendo a riferimento i criteri indicati dal legislatore e cioè “le condizioni dei coniugi, le ragioni della decisione, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, il reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio”.

Altro aspetto da valutare è quello relativo alla disponibilità dell’assegno di divorzio.

L’ipotesi classica che si verifica con una certa costanza riguarda il caso in cui i coniugi, con un accordo ad hoc, decidano di regolare il regime giuridico – economico del futuro ed eventuale divorzio.

È opportuno ripercorre la posizione della giurisprudenza antecedentemente alla novella del 1987.

Dapprima, proprio basandosi sulla natura composita dell’assegno divorzile, le Corti di merito e di legittimità riconoscevano la disponibilità del diritto di credito insito nell’assegno de quo, almeno nei casi in cui la funzione di tale assegno fosse risarcitoria o compensativa (Cass. Civ. 18.05.1983 n. 3427; Cass. Civ. 03.07.1980 n. 4223).

È con la novella del 1987 che la giurisprudenza cambia radicalmente orientamento e ciò in conseguenza all’affermazione della natura esclusivamente assistenziale dell’assegno di divorzio.

Si sancisce una radica indisponibilità preventiva dei diritti economici conseguenti allo scioglimento del matrimonio, con un itinerario argomentativo decisamente vasto (Cass. Civ. 20.03.1998 n. 2945; Cass. Civ. 11.06.1997 n. 5244; Cass. Civ. 07.09.1995 n. 9416; Cass. Civ. 28.10.1994 n. 8912) .

L’orientamento più risalente (Cass. Civ. 04.06.1992 n. 6857), raramente presente però anche in sentenze più recenti (Cass. Civ. 14.06.2000 n. 8109), si basava sull’articolo 160 c.c. che sancisce la totale indisponibilità dei diritti e doveri che scaturiscono dal matrimonio. Da tale indisponibilità conseguiva la totale nullità degli accordi preventivi, proprio perché vertenti su diritti indisponibili.

In secundis, si affermava che, comunque, in forza dell’art. 9 l. 898 del 1970, i coniugi avessero già assicurata la possibilità di revocare o modificare l’assegno post – matrimoniale, subordinatamente all’esistenza di “giustificati motivi”; tale articolo fornisce già una tutela specifica, volta a rivedere le disposizioni economiche pattuite, rendendo “inutile” il ricorso ad accordi pre – divorzio (Cass. Civ. 04.06.1992 n. 6857).

Da ultimo, si è sostenuto che “ gli accordi preventivi possono condizionare il comportamento delle parti non solo per i profili economici preconcordati ma – quando sono accettati in funzione di prezzo o contropartita per il consenso al divorzio – anche per quanto attiene alla volontà stessa di divorziare” (Cass. Civ. 18.02.2000 n. 1810); si tratterebbe, in sostanza, di un accordo tendente a configurare una “transazione sullo status matrimoniale” (Cass. Civ. 11.06.1997 n. 5244).

Ancora, “gli accordi preventivi tra i coniugi sul regime economico del divorzio hanno sempre l’effetto, se non anche lo scopo, di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno status; in una sfera, cioè, in cui la libertà di scelta ed il diritto i difesa esigono invece di essere indeclinabilmente garantiti” (Cass. Civ. 11.08.1992, n. 9494; Cass. Civ. 28.10.1994 n. 8912; Cass. Civ. 13.01.1993 n. 348; Cass. Civ. 07.09.1995 n. 9416; Cass. Civ. 11.06.1997 n. 5244; Cass. Civ. 20.03.1998 n. 2955)

Tornando all’articolo 5 L. 898/70, occorre analizzare quanto disposto dal penultimo comma secondo cui “l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze”. La ratio di tale disposizione è evidente: la funzione assistenziale dell’assegno di divorzio viene meno ogni qualvolta in cui il coniuge beneficiario contragga un nuovo matrimonio, proprio perché in questa ipotesi i medesimi doveri di solidarietà morale ed economica slittano in capo al nuovo coniuge.

Un problema particolarmente interessante ed attuale è quello relativo all’applicabilità in via analogica di quanto disposto da tale comma in caso di convivenza more uxorio.

Le Corti di legittimità hanno ormai consolidato l’orientamento secondo cui, se una convivenza avente carattere di stabilità e durevolezza non vale ad escludere di per sé la debenza dell’assegno, vale almeno ad incidere sulla determinazione del quantum: “il diritto all’assegno di divorzio non viene meno se chi lo chiede abbia istaurato una convivenza more uxorio con altra persona, rappresentando detta convivenza soltanto un elemento valutabile al fine di accertare se la parte che richiede l’assegno disponga o meno di mezzi adeguati rispetto al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” (Cass. Civ. 26.01.2006 n. 1546). Tale ricostruzione trova la sua giustificazione nel fatto che la semplice convivenza ha natura intrinsecamente precaria, non fa sorgere obbligo di mantenimento e non presenta quella stabilità giuridica propria del matrimonio che giustifica la cessazione definitiva dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile.

Ancora “in assenza di un nuovo matrimonio, il diritto all’assegno di divorzio, in linea di principio, di per sé permane anche se il richiedente abbia istaurato una convivenza more uxorio con altra persona, salvo che sia data la prova, da parte dell’ex coniuge, che tale convivenza ha determinato un mutamento in melius – pur se non assistito da garanzie giuridiche di stabilità, ma di fatto adeguatamente consolidatosi e protrattosi nel tempo – delle condizioni economiche dell’avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento ad opera del convivente o, quanto meno, di risparmi di spesa derivategli dalla convivenza, onde la relativa prova non può essere limitata a quella della mera instaurazione e della permanenza di una convivenza siffatta, risultando detta convivenza di per sé neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche dell’istante e dovendo l’incidenza economica della medesima essere valutata in relazione al complesso delle circostanze che la caratterizzano, laddove una simile dimostrazione del mutamento in melius delle condizioni economiche dell’avente diritto può essere data con ogni mezzo di prova, anche presuntiva, soprattutto attraverso il riferimento ai redditi e al tenore di vita della persona con la quale il richiedente l’assegno convive, i quali possono far presumere, secondo il prudente apprezzamento del giudice, che dalla convivenza more uxorio il richidente tragga benefici economici idonei a giustificare il diniego o la minor quantificazione dell’assegno” (Cass. Civ. 20.01.2006 n. 1179).

Quindi, di fatto, la semplice convivenza non basta ad escludere l’obbligo di corrispondere l’assegno di divorzio: tuttavia, se da tale convivenza ne deriva per l’ex coniuge beneficiante un miglioramento sostanziale, che si risolve in una fonte effettiva e non aleatoria di reddito (Cass. Civ. 06.02.2004 n. 2251), si può allora procedere alla revisione del quantum dell’assegno, ex art. 9 l. 898/70, così come modificato dall’art. 13 L. 87/74 e, in casi estremi, quando cioè, proprio a seguito di tale convivenza la condizione economica dell’ex coniuge ha raggiunto livelli di autonomia e dignità, si può arrivare alla revoca dell’obbligo di corresponsione dell’assegno (Cass. Civ. 03.11.2004 n. 21080).

Venendo al comma 8 dell’art. 5 L. 898/70, così come modificato dall’art. 10 L. 74/87, esso dispone che “su accordo delle parti la corresponsione può avvenire in unica soluzione ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale. In tal caso non può essere proposta alcuna successiva domanda di contenuto economico”. La previsione, in alternativa di una corresponsione mensile soggetta a rivalutazione periodica, di un assegno una tantum, era già presente nella legge del 1970 ma, con la novella del 1987, viene inserita in un comma autonomo. Il testo originario dell’art. 5, al comma 4 prevedeva che, su accordo delle parti, la corresponsione dell’assegno divorzile poteva avvenire in una unica soluzione. La novità maggiore apportata dalla novella del 1987 riguarda l’introduzione dell’inciso “ove questa sia ritenuta equa dal Tribunale”. Il legislatore ha ritenuto necessario, quindi, un controllo giudiziale sull’entità dell’assegno di divorzio in una unica soluzione, una sorta di omologazione da parte del Tribunale. Non è più, quindi, sufficiente il solo accordo delle parti: una volta raggiunta una soluzione pattizia, gli ex coniugi devono necessariamente sottoporre la stessa al vaglio del Tribunale.

Laddove però il Giudice, anche sulla base di una valutazione equitativa, dia il proprio assenso, il coniuge beneficiario non potrà vantare ulteriormente diritto alcuno di stampo patrimoniale e non, attesa la cessazione, per effetto del divorzio, di qualsiasi rapporto con l’ex coniuge (Cass. Civ. 27.07.1997 n. 7365).

Il comma 9 dell’art. 5 dispone che “i coniugi devono presentare all’udienza di comparizione avanti al presidente del tribunale la dichiarazione personale dei redditi e ogni documentazione relativa ai loro redditi e al loro patrimonio personale e comune. In caso di contestazioni, il tribunale dispone indagini sui redditi, sui patrimoni e sull’effettivo tenore di vita, valendosi, se del caso, anche della polizia tributaria”. Quindi, sono le parti, in rispetto del principio di leale collaborazione, a dover fornire al Tribunale gli elementi reddituali necessari per poter determinare correttamente il quantum dell’assegno divorzile. La prova del reddito può essere data, oltre che con la documentazione prevista dalla norma stessa, con qualsiasi mezzo, compresa la presunzione (Cass. Civ. 23.01.1996 n. 496). La dichiarazione dei redditi, quindi, costituisce solo uno degli strumenti attraverso i quali il giudice può determinare il proprio convincimento, sia pure privilegiato dalla legge (Cass. Civ. 09.05.1997 n. 4067).

Lo stesso comma prevede anche poteri istruttori d’ufficio, previsti per soddisfare al meglio le finalità pubblicistiche sottese alla domanda sull’assegno e per evitare che questa venga respinta quando il richiedente non riesca a dimostrarne il buon fondamento (Cass. Civ. 03.07.1996 n. 6087).

Naturalmente tali poteri rimangono comunque subordinati alla disponibilità delle parti: è necessaria la contestazione mossa da un coniuge circa la sufficienza e la veridicità, ai fini della decisione, della documentazione presentata dall’altro coniuge. Ne consegue che l’acquiscenza della parte interessata, che non contesti le risultanze e la completezza di detta documentazione, preclude alla medesima di dedurre in sede di impugnazione il mancato uso di tali poteri da parte del Tribunale (Cass. Civ. 08.11.1996 n. 9756). Se, comunque, il giudice ritiene che gli elementi forniti dalle parti siano sufficienti per una valida ricostruzione delle loro situazioni reddituali, non è tenuto, anche in caso di contestazioni, ad utilizzare tali poteri istruttori ufficiosi, che restano quindi nella totale discrezionalità dell’organo giudicante, trattandosi di un potere – dovere del tribunale. (Cass. Civ. 10.08.2001 n. 11059; Cass. Civ. 15.01.1999 n. 370; Cass. Civ. 26.05.1999 n. 5095).




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12.12.2006 Avv. Matteo Santini

Avv. Matteo Santini

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