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Avvocati    

I caratteri e le contraddizioni del decreto Bersani

Avevamo chiesto via email a Michelina Grillo di rispondere a poche domande, ma non ci e' giunta alcuna risposta.

Le chiedevamo cosa si faceva per spiegare i motivi della protesta, visto che i giornali continuavano a parlare di taxi e non di avvocati.

Continuiamo noi a parlare delle ragioni della protesta, con l'aiuto del "nostro" Marco Mecacci, avvocato in Firenze, che ha approfondito alcuni aspetti del decreto di interesse per gli avvocati.

Buona lettura

31.08.2006 - pag. 29837 print in pdf print on web

L

LE LIBERALIZZAZIONI NEL DECRETO BERSANI: LA STRANA “STORIA" DELLE TARIFFE PROFESSIONALI DEGLI AVVOCATI. I. Premessa. Il procedimento legislativo che ha portato all’approvazione del c.d. “Decreto Bersani” (D.L. 223/2006) ed alla sua conversione nella l. 48/2006, è ad avviso di chi scrive, un tipico esempio di legiferazione “ideologica” italico more. Il decreto legge appena nato lo scorso 30 giugno, è ritenuto dal Governo che lo emana una vera e propria rivoluzione, che parificherà l’attività professionale a quella commerciale in quegli aspetti che finora le differenziavano: tariffe minime inderogabili, divieto di pubblicità, divieto di società interprofessionali. La rivoluzione annunciata dai proclami però, almeno in materia di tariffe professionali degli avvocati, si arrocca velocemente davanti alle proteste altrettanto “ideologiche” dei destinatari, e quasi torna al punto di partenza, dopo avere “accettato” quasi per forza, che la professione d’avvocato è ben altro che attività commerciale. Il decreto, infatti, viene convertito in legge a colpi di fiducia, quasi ottriato, per confermare agli occhi del primo destinatario degli interventi - il cittadino/consumatore - l’impressione, ma solo l’impressione, di un intervento “ideologicamente” rivoluzionario. In concreto però, quella liberalizzazione che avrebbe dovuto per definizione togliere i vincoli, è subito circondata da lacci e laccioli, dettati spesso da ragioni di cassa – e forse anche da “buon senso”- che ne “svuotano” di parecchio il contenuto. @@ II. Le ragioni “di principio” del D.L. Bersani. Nell’articolato che il Governo approva in un Consiglio dei Ministri con Ordine del Giorno diverso da alcuni dei provvedimenti che saranno emanati in concreto, si leggono molteplici promesse di buone intenzioni. Le dichiarazioni di principio sulle “finalità e ambito” di applicazione delle norme, fanno pensare ad una svolta epocale nei futuri rapporti tra cliente e libero professionista. L’intero art. 1 del testo originario, e il I° comma dell’articolo 2, si prodigano nel far presente al lettore che con l’approvazione di questa legge cambierà tutto. Non “solo” per volontà del Governo, sembrano dire gli articoli con un certo pudore e quasi a “scusarsi” con i destinatari, ma per volontà dell’Unione Europea, delle Authorities di settore, dei consumatori e della concorrenza con la sua “mano invisibile”. L’intento “liberalizzatorio”, stando almeno alle dichiarazioni di principio, è chiaro ed indiscutibile. Accanto ai buoni propositi però, il lungo testo di ben 41 articoli - uno dei quali con 55 comma – è subito lastricato da numerose norme di taglio alle spese di Giustizia e di “stretta” fiscale, che come vedremo, hanno poco e nulla a che vedere con la liberalizzazione. Tanto poco, da essere in alcuni casi, in aperto contrasto con detto fine. @@ III. Le reazioni “di principio”, dei professionisti: nella specie, degli organi associativi dell’Avvocatura. Approvato il decreto di “liberalizzazione”, arrivano subito le considerazioni “sorprese” ed “indignate” degli organismi professionali, che in nome di quella che poco dopo sarà definita una “battaglia di retroguardia”, denunciano “attentati” alla legge professionale del 1939, di cui pure in passato, avevano sottolineato la necessità di riforma. La reazione degli Organismi dell’Avvocatura, più che il concreto merito del decreto, si oppone al metodo del Governo, reo di difetto di “concertazione”, ed “insensibilità” alla specificità della professione. Il risultato, è proclamazione dell’astensione dalle attività d’udienza in pieno luglio, quando ormai notoriamente con l’avvicinarsi del periodo feriale, la frequenza delle sessioni davanti al Giudice, è drasticamente ridotta. Facendo leva sul “metodo” e sulla asserita lesione di “interessi costituzionalmente garantiti”, lo “sciopero” è proclamato senza osservare il periodo di preavviso di 10 giorni di cui alla l. 146/90. Come nel caso del governo, che ha riempito di “pudore” il decreto con richiami a “principi” in realtà fallaci, anche in questo caso, appare evidente la natura almeno inizialmente “ideologica” dell’iniziativa degli Organi dell’Avvocatura, perché i riferimenti al contenuto concreto della riforma “Bersani”, sono limitati a poche valutazioni sui tagli alle spese di Giustizia. Ciò che il Governo ha fatto male, dice l’OUA, è il “metodo”, perché non avrebbe mai dovuto in nessun modo cercare una riforma di alcuni aspetti delle libere professioni senza coinvolgere gli Ordini. Agli occhi dell’opinione pubblica però, il messaggio che passa, è che gli avvocati non vogliono il cambiamento. @@ IV. Le modifiche parlamentari che ridefiniscono il sistema tariffario degli avvocati. In sede di conversione, pur dopo avere ribadito il contenuto “ideologico” degli articoli 1 e 2 comma I° del Decreto Bersani, il legislatore è costretto a prendere atto che sarebbe stata impossibile, almeno nella professione d’avvocato, la “semplice” eliminazione dei minimi di Tariffa, o come ha sostenuto qualcuno, dell’intero sistema tariffario. La natura prevalentemente contenziosa e giudiziale dell’attività d’avvocato, infatti, a meno di non sconvolgere tutti i principi processuali sulla soccombenza, impone che la quantificazione del compenso per l’opera prestata dall’avvocato sia eterodeterminata, cioè disposta dal Giudice. E questo, indipendentemente dall’eventuale pattuizione “in deroga” tra cliente ed avvocato. Per queste ragioni, il secondo periodo dell’articolo 2 comma II°, ribadisce l’attuale sussistenza del principio della soccombenza e del diritto alla liquidazione dei compensi professionali in sede giudiziale, “gratuito patrocinio” compreso. Quella Tariffa Professionale, che nel primo comma pareva destinata ad una celere desuetudine nei rapporti tra cliente ed avvocato, uscita dalla porta, ricompare dunque ora dalla finestra come un irrinunciabile parametro di riferimento nei rapporti tra avvocato e Giudice. Quantomeno con riferimento all’attività giudiziale dunque, le considerazioni degli articoli 1 e 2 comma I° del Decreto, sulla “anticoncorrenzialità” della Tariffa, appaiono come un “male ineliminabile” derivante dalla “specificità” della professione. In dette ipotesi, infatti, i compensi che derivano dalla professione forense, sono oggetto di determinazione, quantomeno “indicativa” da parte di un terzo (che sia Giudice, arbitro, o comunque persona in posizione di terzietà). Questo però, crea ad avviso di chi scrive, seri ostacoli alla possibilità che l’avvocato possa pattuire con il cliente di quantificare “al minimo” o annullare il suo compenso professionale, nel caso di vittoria in una causa e di spese liquidate dal Giudice a carico della controparte. Pur essendo teoricamente possibile, una simile pattuizione risulterebbe professionalmente scadente e svilente, oltre che fiscalmente rischiosa. Scadente e svilente, perché passibile di sanzione deontologica; fiscalmente rischiosa, in conseguenza della tracciabilità dei compensi e dei nuovi obblighi di “trasparenza” introdotti dal Decreto. Logico dunque ritenere che l’eventuale pattuizione dei compensi professionali in deroga ai minimi tariffari, nel caso di attività giudiziale, sarà nella pratica limitata alle sole ipotesi di soccombenza della parte assistita e/o di insolvenza della controparte soccombente. “Reintrodotta” la Tariffa professionale, la modifica in sede di conversione del Decreto Bersani procede oltre, ed introduce l’obbligo per cliente e legale, di pattuire per iscritto l’entità di compensi professionali che deroghino alla Tariffa, comminando la nullità di le eventuali dichiarazioni verbali intercorse (così il nuovo testo del comma 3 dell’art. 2223 c.c. introdotto dalla l. 248/2006). A meno dunque di voler intendere che in mancanza di pattuizione scritta, l’avvocato non abbia alcun diritto al compenso professionale, si deve infatti ritenere che il nuovo testo dell’art. 2223 comma II° c.c. limiti il suo ambito di applicazione alle ipotesi in cui cliente ed avvocato sisiano preventivamente accordati sull’entità della tariffa. La norma, però, conferma ancora di più il valore della Tariffa, che non sarà più obbligatoria, ma senz’altro continuerà a costituire un valido punto di riferimento. La disposizione pare infatti derivare dalla necessità, attesa la non eliminabilità della Tariffa nei rapporti giudiziali, di evitare un successivo contenzioso tra avvocato e cliente sulla sussistenza dell’accordo in deroga e sull’operato professionale. @@ V. Le disposizioni del Decreto Bersani, non oggetto di modifiche parlamentari, in aperto contrasto con le disposizioni e le finalità di “liberalizzazione” del sistema tariffario di cui all’art. 1 D.L. 223/2006. “Confermata” e “codificata” l’esistenza della Tariffa Professionale, la legge 248/2006 ratifica per ragioni “di cassa” due norme del Decreto Bersani, in aperto contrasto con le norme di “principio” del Decreto Bersani stesso: l’art. 24 e l’art. 35 comma 27. Disposizioni che, stando alle finalità liberalizzatorie del D.L. 223, avrebbero dovuto automaticamente “contrastare” con le strombazzate Ragioni Superiori di Unione Europea, Authorities, Consumatori e Concorrenza. L’art. 24 D.L. 223/2006, con un aggettivo ormai poco usato, ma dal chiarissimo significato, precisa che “… per qualsivoglia arbitrato, anche se disciplinato da leggi speciali…”, si dovrà applicare “inderogabilmente a tutti i componenti dei collegi arbitrali” la Tabella D del D.M. Giustizia 8 aprile 2004 n. 127, cioè quella tanto vituperata Tariffa professionale che pure l’art. 2 comma II° avevano dipinto a tinte così fosche. Il motivo di questa disposizione sinceramente non è chiaro a chi scrive, perché se la sua finalità fosse stata conforme al Capo in cui è inserita (Misure di contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica) ed al titolo dell’articolo (Contenimento spesa per compensi spettanti agli arbitri), non vi sarebbe stata alcuna ragione di introdurre una Tariffa professionale obbligatoria “trasversale” a “qualsivoglia” arbitrato. In ogni caso, anche a voler limitare l’intervento al solo settore pubblico, la disposizione appare chiaramente ispirata alla volontà di garantire un risparmio di spesa alla “P.A. – Cliente” coinvolta in un arbitrato. La tecnica normativa però, di “liberalizzazione” delle Tariffe quando cliente è il privato cittadino, ma di “inderogabilità” quando il cliente è la P.A. (o “anche la P.A.”), ricorda vagamente i ben noti animali di Orwell, tutti uguali di fronte alla legge, tranne alcuni “un pochino più uguali”. Allo stesso modo “pratico” e non ideologico dell’art. 24, l’art. 35 comma 27 detta un’ulteriore disposizione che “irrigidisce” senz’altro la libertà tariffaria pomposamente proclamata dall’articolo 2. La norma, con una formulazione anche in questo caso omnicomprensiva dispone che “…le imprese, gli intermediari e tutti gli altri operatori del settore delle assicurazioni che erogano in ragione dei contratti di assicurazione di qualsiasi ramo, somme di denaro a qualsiasi titolo nei confronti dei danneggiati, comunicano in via telematica all’anagrafe tributaria, anche in deroga a contrarie disposizioni legislative, l’ammontare delle somme liquidate, il codice fiscale o la partita iva del beneficiario e dei soggetti le cui prestazioni sono state valutate ai fini della quantificazione della somma liquidata…” Se ora si tiene presente che una gran parte del contenzioso giudiziale ha per oggetto questioni di carattere assicurativo, e che in caso di soccombenza l’assicuratore è obbligato a pagare le spese liquidate dal Giudice “sulla base” delle Tariffe professionali, e che detto importo sarà comunicato all’anagrafe Tributaria per gli eventuali accertamenti del caso, diviene davvero difficile pensare che detta somma possa costituire oggetto di negoziazione scritta tra cliente ed avvocato. In quel caso, infatti, l’avvocato si troverebbe nell’imbarazzante situazione di dover “giustificare” in modo poco credibile al fisco, in caso di accertamento, un minore introito rispetto a quanto liquidatogli dall’assicuratore per “benevolenza” verso il cliente. E tutto ciò a maggior ragione, se si tiene presente che sempre a norma del comma 27: “… i dati acquisiti ai sensi del presente comma sono utilizzati prioritariamente nell’attività dia accertamento effettuata nei confronti dei soggetti le cui prestazioni sono state valutate ai fin della quantificazione della somma liquidata…”. Di fatto dunque, in caso di soccombenza giudiziale dell’assicuratore, l’importo corrisposto al professionista ben difficilmente potrà essere diverso da quello liquidato dal Giudice “sulla base” della Tariffa professionale, perché altrimenti scatterà automaticamente una presunzione d’evasione fiscale a carico del professionista praticamene “invincibile”. Ma ciò dimostra, ancora di più, che l’intervento di liberalizzazione delle Tariffe tanto salvificamente annunziato all’art. 2 a favore dei consumatori, può essere tranquillamente accantonato da Cesare quando a premere sono le ragioni “di cassa”. VI. Conclusioni. Con un qualche spunto polemico, che il lettore perdonerà, chi scrive ha cercato di dare conto delle meste riflessioni suscitategli dalla vicenda – Bersani, nei suoi aspetti più appariscenti. Le riflessioni, portano a ritenere che tipico more italico, entrambe le parti contrapposte (Governo e Oua), hanno inizialmente sostenuto le loro ragioni con piglio inutilmente ideologico. Esaurita la vis polemica, e melius re perpensa, è emersa in sede di conversione del Decreto Bersanime purtroppo soltanto in piccola parte, la necessità di individuare regole “peculiari” per quella professione che, forse unica, dagli esseri non pensanti differenzia. La nostra critica all’approccio “ideologico” però, ci porta a dire con il prof. Mantovani, che “…la ideologia, nuova mitologia dell’uomo moderno e nuova teologia del laico, assume il primato su tutte le scienze ed esperienze umane. Con perdita del senso del reale e di pragmatismo e profonde fratture tra cultura corrente e realtà (data fra l’altro la inveterata abitudine nazionale di essere il nostro paese rivoluzionario nella ideologia, ma fortemente conservatore nell’azione)…” E con Ennio Flaiano, che “…Si battono per l’idea, non avendone…”.

Marco Mecacci.


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31.08.2006 Marco Mecacci

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