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In tema di fallimento e problemi connessi al difetto di giurisdizione di un società con sede all’estero

Il testo corredato di note e'' disponibile tra gli ebook di IusOnDemand
11.04.2005 - pag. 28584 print in pdf print on web

Roberto Marraffa

(Avvocato e Docente di Etica d’impresa e bilancio sociale nella facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Cassino.)

In tema di fallimento e problemi connessi al difetto di giurisdizione di un società con sede all’estero

1. Dalle norme e dall’interpretazione datane dal “diritto vivente” risulta che sussiste il difetto di giurisdizione del giudice italiano a dichiarare il fallimento di una società con sede all’estero e priva di stabile rappresentanza in Italia anche se vi abbia svolto attività di commercio(1). L’art.9,2°co., legge fallim., ammette il fallimento in Italia dell’imprenditore che ha all’estero la sede principale dell’impresa, anche se è stata pronunciata dichiarazione di fallimento all’estero. La giurisprudenza prevalente(2) richiede, perché possa esser dichiarato il fallimento, che l’imprenditore abbia una sede secondaria o stabile rappresentanza in Italia, da intendersi come centro degli interessi e dell’effettiva attività amministrativa e direttiva. Tale norma va intesa nel senso che alle procedure concorsuali sono soggetti, in caso d’insolvenza, gli imprenditori soggetti alla legge italiana e che le norme applicabili sono quelle della legge italiana. L’art.2221 c.c., già interpretato alla luce dell’art.2509, contiene una disciplina concernente la legge regolatrice (che è quella italiana) dell’impresa in stato d’insolvenza, e con essa necessariamente anche un’indicazione relativa alla giurisdizione, dal momento che solo il giudice italiano potrà applicare norme processuali quali quelle in materia di fallimento e di concordato, in forza del principio di territorialità della legge processuale sancito dall’art.27 disp. prel. I mutamenti intervenuti in ordine alle modifiche della sede, alla cancellazione della società in Italia, alla composizione dell’organo gestorio, essendo oggetto di pubblicità legale, sono opponibili ai creditori e possono essere considerati rilevanti dal Tribunale ai fini della convocazione del legale rappresentante del debitore, ai sensi dell’art.15 l. fall. Tuttavia, è senz’altro applicabile l’art.10 l. fall. che esclude il fallimento quando la cessazione dell’attività sia avvenuta oltre l’anno? Si può ben ritenere che il termine annuale sia applicabile anche al caso in cui l’imprenditore abbia all’estero la sede dell’impresa e non abbia più alcuna sede secondaria o rappresentanza in Italia. In tale senso si è espressa la dottrina(3). L’art.2509 cod.civ. è stato abrogato dall’art.73 l. 31.5.1995 n.218, a decorrere dal 1.9.1995 ai sensi dell’art.8 d.l. 28.8.1995 n.361, conv. in l. n.437/1995. Si tratta perciò di stabilire quale incidenza si produce in forza (della sentenza n.319 del 2000) della C. costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.10 l. fall. nella parte in cui non prevede che il termine di un anno dalla cessazione dell’esercizio dell’impresa collettiva per la dichiarazione di fallimento della società decorra dalla cancellazione della società stessa dal registro delle imprese ed ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.147 l. fall. nella parte in cui prevede che il fallimento dei soci a responsabilità illimitata di società fallita possa essere dichiarato dopo il decorso di un anno dal momento in cui essi abbiano perso, per qualsiasi causa, la responsabilità illimitata. La “cessazione” è presa in considerazione dalla Corte costituzionale per significare cessazione di attività o del rapporto sociale -senza distinzione fra impresa collettiva o individuale- connesse a morte, recesso, esclusione, scioglimento ecc. ed a qualunque causa. Si capisce che la fissazione di un anno dalla cessazione è stata assunta come requisito di certezza giuridica, necessario, come ogni fictio juris, a determinare certezze dopo un certo lasso di tempo(ad es. prescrizioni e decadenze) di diritto processuale e di diritto sostanziale. La certezza si è quindi accordata con la semplificazione, di modo che, conferendo alla società l’evento della cancellazione dal registro delle imprese, come dies a quo per la preclusione del fallimento, si è fatto pari trattamento alla morte dell’imprenditore individuale(art.11) od alla sua cessazione(art.10 l. fall.) ed è significativo che la Corte costituzionale abbia deciso con il parametro dell’art.3 Cost. sulla parità di trattamento e sul divieto, senza ragionevolezza, della disparità tra situazioni sostanzialmente uguali od omogenee. In conclusione, una società operante in Italia( non importa se come sede secondaria o rappresentanza) quando è cessata ed è stata cancellata con l’atto finale in esecuzione delle delibere assembleari non può essere dichiarata fallita oltre l’anno dalla cessazione. E’ appena il caso di accennare che la Corte costituzionale ha espressamente escluso, ai fini dell’art.10 l. fall., la rilevanza dei rapporti pendenti oltre la data della cessazione e ciò perché la questione era (solo) fallimentare e non si estendeva alla tutela dei diritti sostanziali per altre vie diverse dal fallimento, che è una procedura od un processo (forma) e non un istituto di diritto sostanziale. Questo per dire che i creditori, se ne hanno titolo, possono scegliere altri strumenti, altri modi per agire. 2. Dopo questo scrutinio vediamo quale sia la soluzione da dare a questo quesito. “una società italiana, posseduta per intero da una società straniera, decide di trasferire all’estero la propria sede, ma, mentre si sviluppano o si concludono, con la cancellazione, le operazioni di trasferimento, la società viene dichiarata fallita in Italia ed il curatore chiede il fallimento in estensione del socio unico straniero. Cerchiamo di rispondere: a)La società italiana è dichiarata fallita ed il fatto che fosse cancellata dal registro delle imprese italiane, non ha alcuna conseguenza sostanziale anche perché la nuova società straniera essendo costituita a prescindere dal fallimento della sua omonima italiana, non si è portata appresso i debiti, data la avvenuta cristallizzazione e lo “spossessamento generale” avvenuti in Italia per effetto del fallimento. b)Rimane il fatto, fondamentale, che in Italia e prima di scappare all’estero, la società era posseduta per l’intero dalla società straniera, che era (ed è rimasta) illimitatamente responsabile e solidale. 2.1 Bisogna capire se, il Tribunale italiano sia fornito di giurisdizione nel caso in cui si chieda di estendere il fallimento al socio unico di società italiana fallita in Italia e quindi illimitatamente e solidalmente responsabile di tutte le obbligazioni della società fallita. Un primo problema si pone sulla qualificazione dell’istituto: giurisdizione o competenza? Secondo il sistema del fallimento della società (artt.146,147 e 148 l. fall.) il primo fallimento radica la competenza(art.9 l. fall.) ed il fallimento in estensione deve essere pronunciato dallo stesso Tribunale(art.147 l. fall.). Non v’è quindi spazio per parlare di giurisdizione, ma soltanto di competenza. In tal senso è la lettera della legge e la competenza è esclusiva perché il fallimento in estensione deve essere riunito a quello già dichiarato (art.148 legge fallim.). 2.2 Malgrado le dispute dottrinarie sul socio unico, padrone, tiranno, apparente ed occulto e malgrado l’istituzione della società unipersonale, bisogna tener presente, che il socio unico straniero è di per sé imprenditore commerciale che ha operato in Italia, lasciando vuote le casse della società posseduta per l’intero e della quale era solidalmente ed illimitatamente responsabile per le obbligazioni assunte. La giurisprudenza di merito ha osservato che “l’assoluta apoditticità dell’espressione letterale” rende l’art.147 l. fall. applicabile anche all’ipotesi in cui l’illimitata responsabilità del socio non derivi dal particolare tipo di società partecipata ma da circostanze eccezionali quali quelle previste dall’art.2362 c.c. e pertanto può essere assoggettato a fallimento il socio unico di società di capitali. Si è poi rilevato che tale soluzione interpretativa non può essere esclusa dal fatto che gli artt.2362 e 2497 c.c. prevedono dei limiti temporali alla responsabilità illimitata in quanto può non esservi coincidenza tra le obbligazioni sociali per le quali il socio viene chiamato a rispondere personalmente e la totalità delle obbligazioni sociali, così come del resto si verifica nell’ipotesi di fallimento del socio receduto, defunto e escluso(4). In passato una parte della giurisprudenza di merito si era già pronunciata in senso positivo sull’assoggettabilità al fallimento del socio unico quotista(5). In dottrina, l’estensibilità del fallimento sociale all’unico socio è stata ritenuta ammissibile in base al presupposto che l’art.147 si applica ad ogni genere di soci illimitatamente responsabili e pertanto anche ai soci di società di capitali che risultino responsabili personalmente delle obbligazioni sociali. L’assoggettabilità a fallimento, insomma, è ammessa da parte della dottrina e dall’orientamento della giurisprudenza di merito, pur con diverse motivazioni. Chi ammette l’assoggettabilità a fallimento del socio unico azionista o quotista ritiene che l’art.147 l. fall. sia applicabile ad ogni genere di soci illimitatamente responsabili, anche ai soci illimitatamente responsabili di società di capitali, postulando così la natura non eccezionale di tale norma. 3.Si dibatte se il socio unico di una società fallita può sostenere, in Italia, l’inammissibilità del suo fallimento in conseguenza del fatto che la società fallita avrebbe trasferito la sua sede all’estero e colà sarebbe ancora in bonis. Non è questione di sede o di vigenza attuale, ma di perdurante responsabilità illimitata per le obbligazioni assunte dalla società fallita in Italia e queste obbligazioni solidali permangono anche dopo il fallimento dell’obbligato principale, specie considerando che la condebitrice è imprenditore ed ha agito lasciandosi dietro, per danneggiarli, i creditori italiani. Tuttavia, a togliere ogni dubbio, e senza indugiare sulla legislazione speciale, sarà sufficiente leggere ciò che, esattamente in terminis, ha deciso ed affermato la giurisprudenza qui di seguito sintetizzata. Il socio unico straniero di società di capitali italiana, in presenza di obbligazioni sociali insoddisfatte, risalenti al periodo in cui abbia rivestito tale posizione, è soggetto al fallimento in estensione a quello dichiarato a carico della società(6). Potendo lo straniero, nonostante tale sua condizione, assumere la qualità di socio illimitatamente responsabile di una società italiana, consegue a questa circostanza la necessaria soggiacenza dello straniero medesimo a tutte le implicazioni proprie di siffatta qualità, tra cui il fallimento in via di estensione di quello della società, dichiarato dal competente Tribunale fallimentare italiano(7). A questo punto sembrano peraltro utili alcune ulteriori considerazioni: a)l’art.9 della l. fall. non subordina l’assoggettabilità a fallimento dello straniero alla condizione che questi abbia all’estero la sede principale dell’impresa, ma, al contrario, amplia tale assoggettabilità statuendo che, riguardo allo straniero che esercita l’impresa in Italia, essa non è esclusa dal fallimento già dichiarato all’estero, salve le convenzioni internazionali. Tale articolo – coordinato, come deve essere, con il precedente art.1 – esprime il principio della territorialità della legge fallimentare, nel senso che le procedure concorsuali da essa previste si applicano a chiunque, indipendentemente dalla sua cittadinanza, realizzi nel territorio dello Stato i presupposti subiettivo e obiettivo delle procedure stesse(8). b)L’estensione del fallimento al socio palese, occulto, illimitatamente responsabile ex art.147 l. fall. prescinde dalla qualitas di imprenditore (italiano o straniero). La sentenza di fallimento apre il concorso fra tutti i creditori e ne presuppone la pluralità, rimandando alla verifica la formazione dello stato passivo. Se non esistessero debiti, non esisterebbero nemmeno il fallimento (art.118 l. fall.) e quindi sarà sufficiente affermare che il socio può essere dichiarato fallito in estensione (sia come socio unico imprenditore indiretto, sia come condebitore insolvente perché non paga e non offre garanzia) e poi, in sede di formazione del passivo ex art.148 l. fall. potrà contestare debiti non suoi, posto che, comunque, la sua responsabilità illimitata e solidale sussisteva di sicuro al momento dell’accertamento dello stato di insolvenza della società italiana


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11.04.2005 Roberto Marraffa

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