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Isp 15.05.2012    Pdf    Appunta    Letti    Post successivo  

Il Tribunale di Pinerolo rifiuta il ricorso contro Google Suggest (sentenza e podcast)

Manca il fumus boni iuris, sentenza originariamente pubblicata su blog.quintarelli.it
Spataro

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TRIBUNALE ORDINARIO DI PINEROLO

Il Giudice Designato sciogliendo !a riserva assunta all'udienza del 23.4.2012 nel procedimento di urgenza iscritta al n. 696/2012 R.G., promosso da;

Tizio assistito avv. Stefano Previti Alessandro Izza Monica Bernardoni -PARTE RICORRENTE - contro GOOGLE INC. in persona del legale rappresentante John Kent Walker assistita avv. Marco Berliri    Massimiliano Masnada - Marta Stracciali — Elena Garzia -PARTE RESISTENTE- avente ad oggetto; richiesta provvedimento d'urgenza ex art. 700 c.p.c.;

ha pronunciato la seguente;

ORDINANZA Premesso che con ricorso ex art. 700 c.p.c. depositato 11 31.3.2012,  Tizio ha adito questa Tribunale deducendo;

di aver recentemente constatato che nell'inserire (anche sala in parte) il proprio nome e cognome nel motore di ricerca INTERNET gestito da GOOGLE il software "suggest search" apriva una tendina sulla barra di digitazione che suggeriva di includere nella ricerca i termini "arrestato" e "indagato";

di avere pertanto diffidato GOOGLE INC., can lettera trasmessa in data 8.3.2012, a rimuovere tale associazione, trattandosi, per un verso, di un suggerimento di ricerca del tutto infondato e contrario al vero (non essendovi nella Rete INTERNET alcun contenuto dal quale si evinca che egli fosse mai stato arrestato o indagato) e, per altro verso — e conseguentemente — di un abbinamento gravemente diffamatorio e lesivo della sua reputazione personale e professionale (essendo egli, tra l'altro, presidente di una holding di partecipazioni industriali operativa sul mercato nazionale ed internazionale, insignito del titolo di Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana e Console Onorario del Kazakhstan nella Regione Piemonte);

che con lettera del 19.3.2012 GOOGLE rispondeva che non avrebbe accolto la richiesta, trattandosi di abbinamenti non da essa determinati, ma generati automaticamente sulla base delle più frequenti ricerche effettuate dall'utenza;

che in data 26.3.2012 egli poteva constatare come dal "suggest search" del motore GOOGLE fosse scomparsa la parola "arrestato", permanendo ancora quella "indagato", attribuendo la circostanza all'intervento della Societa';

che l'associazione di tali termini alla persona del ricorrente integrava gli estremi del reato di diffamazione nei suoi confronti e che in relazione al medesimo doveva ritenersi la sussistenza della responsabilità omissiva colposa di GOOGLE per aver creato e gestito il meccanismo automatico che ne aveva consentito la visualizzazione e, in ogni caso, per non aver accolto (integralmente) la stragiudiziale richiesta di eliminazione dalla stringa di ricerca delle parole ritenute lesive;

che tale condotta - tuttora in essere (quanto meno con riguardo all'associazione del suo nome al termine "indagato") — aveva determinato e continuava a determinare pregiudizi all'onore, alla persona ed alla professionalità di esso ricorrente con conseguente sussistenza del requisito del periculum di un danno alla reputazione personale e professionale grave ed irreparabile che legittimava il ricorso alla procedura d'urgenza, sì da rassegnare CONCLUSIONI nel senso di ordinare a GOOGLE l'immediata eliminazione dell'associazione dei nome Tizio con la parola "indagato" e di non utilizzare, neppure in futuro, tale associazione o quella tra il nome del ricorrente e la parola "arrestato, con fissazione, ex art. 614 bis c.p.c., di una somma non inferiore a Euro 1.000100 per ogni giorno di ritardo nell'esecuzione del provvedimento e per ogni successiva inosservanza, oltre che con liquidazione delle spese del procedimento ai sensi dell'art. 669- octies, comma 7, c.p.c.;

nei costituirsi ritualmente in giudizio nei termini fissati con decreto di questo Giudice del 4.4.2012, resisteva GOOGLE INC, chiedendo la reiezione del ricorso per sua inammissibilità ed infondatezza e in particolare sostenendo;

che ciò che nell'avversario ricorso è indicato come Google Suggest Search è una funzionalità del motore di ricerca GOOGLE denominato AUTOCOMPLETE, il quale — in modo del tutto automatico ed in forza di un algoritmo che tiene conto delle più diffuse ricerche effettuate di recente sul Web — visualizza le parole più frequentemente digitate nella stringa di ricerca in associazione alle prime parole immesse (nella specie, il nome del ricorrente);

che, trattandosi pertanto di un servizio offerto da GOOGLE — come dagli altri principiale motori di ricerca — in modo del tutto oggettivo e neutrale sulla base dei contenuti immessi dagli utenti nel box delle ricerche di Google Web Search (ed in cui funzionamento è dettagliatamente descritto in una pagina Web accessibile a tutti), il ruolo di essa resistente è quello di un Internet Service Provider (dì seguito, I.S.P.) soggetto alla disciplina di cui al d,Igs. 9.4.2003, n. 70, con conseguente esclusione di responsabilita', non essendo essa mai intervenuta per modificare l'informazione trasmessa o ospitata, nè essendo incorsa in inadempimenti di ordini adottati dalle competenti autorità (la scomparsa del termine "arrestato" in associazione al nome del ricorrente non conseguiva ad un intervento di essa resistente, bensì al fatto che in tempi recenti l'accostamento non era stato più rilevato con la frequenza di prima, essendo stato superato, in popolarita', da altre associazioni di termini);

che in mancanza di un obbligo di sorveglianza dell'I.S.P. sulle informazioni trasmesse o memorizzate, non era ravvisabile a suo carico una responsabilità di carattere omissivo — ex art. 40, comma 2, c.p. — nell'asserito reato di diffamazione da controparte lamentato, non essendo neppure ipotizzabile, per la stessa ragione, un concorso colposo nell'altrui attività illecita, e difettando altresì lo stesso nesso di causalità tra un reato come la diffamazione (da considerarsi a consumazione istantanea e realizzato nel momento in cui gli accostamenti ritenuti offensivi sono stati inseriti nel Web) e la presunta omissione di GOOGLE;

che in forza del d.lgs. 70/2003 l'I.S.P. non ha neppure l'obbligo di attivarsi per rimuovere contenuti inseriti nel Web su richiesta degli interessati — ciò che snaturerebbe la neutralità del Provider — essendo soltanto tenuto ad ottemperare ad ordini dell'autorità giudiziaria o dell'autorità amministrativa di vigilanza;

che, in ogni caso, l'abbinamento dei termini lamentato da controparte non sarebbe idoneo ad integrare, sul piano oggettivo, il reato di diffamazione, essendo l'utente medio di Internet consapevole che il sistema AUTOCOMPLETE si limita ad individuare chiavi di ricerca che — come nella specie — potrebbero portare ad escludere il rinvenimento sul Web di informazioni che confermino la fondatezza dell'associazione, sicchè l'esecuzione della ricerca porta ad escludere il rinvenimento di notizie diffamatorie nei confronti del ricorrente con conseguente insussistenza di alcun danno alla sua reputazione (donde l'inesistenza anche del pericuium in mora dell'azione cautelare); che il ricorso cautelare sarebbe comunque inammissibile per mancanza del nesso di strumentalità rispetto ad un'azione di merito che si intenderebbe esercitare (e che in ricorso neppure viene esplicitata).

OSSERVA Deve innanzitutto disattendersi la pregiudiziale eccezione d'inammissibilità del ricorso per dedotta mancanza del requisito di strumentalità rispetto ad un'azione di merito.

Non v'è dubbio che dalla disposizione dell'art. 700 c.p.c. — secondo cui "chi ha fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il suo diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, può chiedere con ricorso al giudice i provvedimenti d'urgenza, che appaiono, secondo le circostanze, piu'  idonei ad assicurare rovvisoriamente li effetti della decisione sul merito" — si ricavi la connotazione della necessaria "strumentalita'" del provvedimento cautelare rispetto all'emanazione di un ulteriore provvedimento definitivo di cui il primo preventivamente assicuri la fruttuosità pratica. Questo Tribunale condivide anche l'orientamento, seguito da buona parte della giurisprudenza di merito, secondo cui la mancata indicazione nel ricorso cautelare delle conclusioni di merito comporta l'inammissibilità dello stesso, sempre che dal tenore dell'atto non sia possibile dedurre chiaramente il contenuto del futuro giudizio di merito. Ed invero, l'omissione non consentirebbe di accertare il carattere strumentale, rispetto al diritto cautelando, della misura richiesta e violerebbe inoltre il diritto di difesa della parte resistente, che, a norma dell'art. 669 octies, 6° comma, ult. parte, c.p.c., potrebbe assumere l'iniziativa di incardinare la causa di merito nella quale sarebbe convenuta in senso sostanziale (e attore in senso formale), senza essere a conoscenza della domanda per il cui negativo accertamento essa sarebbe tenuta ad agire. Proprio la finalità di garantire il rispetto del contraddittorio nella prospettiva appena evocata conferma peraltro la validità del tradizionale orientamento anche a seguito della riforma del procedimento cautelare, che ha indubbiamente attenuato il vincolo di strumentalità tra fase della cautela e fase del merito, rendendo quest'ultima soltanto eventuale nel caso in cui il fruttuoso esperimento della prima appaia idoneo ad assicurare la tutela del diritto per il quale si è agito.

Nel caso di specie, benchè non siano state espressamente formulate le conclusioni che il ricorrente intenderebbe assumere in un futuro giudizio di merito — peraltro sin da ora espressamente ritenuto solo eventuale, avendo la parte richiesto la liquidazione delle spese a norma dell'art. 669 octies , 7° comma, c.p.c., sul rilievo che il provvedimento cautelare richiesto sarebbe idoneo ad anticipare gli effetti della sentenza di merito ai sensi dell'art. 669 octies , 6' comma, c.p.c. — si evince con chiarezza che la domanda consisterebbe quanto meno nella richiesta di risarcimento dei danni derivanti dalla condotta di diffamazione lesiva della reputazione del 11011111111, che si assume appunto idonea a provocare pregiudizi "all'onore, alla persona ed alla professionalità del ricorrente" (cosi', il ricorso a pag. 3). Di tale impostazione si mostra peraltro ben consapevole la parte resistente, che sin dal presente procedimento cautelare ha spiegato compiute difese sull'insussistenza del reato sul quale il ricorrente ha fondato la domanda e sulla non configurabilità di eventuali profili di danno.

Venendo dunque al merito della valutazione in questa sede richiesta, che postula un accertamento in termini di mero fumus boni iuris, osserva il Giudicante come, sul piano astratto, non possa dubitarsi della fondatezza di una domanda volta a far valere il risarcimento del danno (come detto, anche solo non patrimoniale) conseguente, secondo l'id quod pierumque accidit, ad una condotta diffamatoria in atto, la quale, per sua natura, lede (e continua a farlo sino a che non venga meno) la reputazione del soggetto passivo. Al dì là di un eventuale risarcimento del danno in forma generica e per equivalente, una simile condotta illecita abiliterebbe peraltro il soggetto diffamato ad ottenere quanto qui richiesto in sede cautelare, vale a dire la cessazione dell'abuso che eventualmente si perpetui, trattandosi di azione riconducibile alla categoria della reintegrazione in forma specifica il cui diritto trova generale fondamento nell'art. 2058 c.c.:  (Cass. Pen., Sez. 5, sent. n. 17664 del 05/03/2004-16/04/2004). In questa seconda prospettiva — che interessa la decisione del caso di specie, dolendosi il ricorrente dell'associazione al suo nome di termini che non hanno, di per se', una valenza dispregiativa o insultante — non si può prescindere dall'esame del contesto in cui le espressioni oggetto di doglianza si collocano (per l'analogo principio secondo cui «l'affermazione circa la natura diffamatoria di un articolo di stampa implica la valutazione del contenuto complessivo dello stesso, anche in riferimento al titolo''›, v. Cass. Pen., Sez. 5, sent. 26531 del 09/04/2009-26/06/2009) Per quanto si è più sopra riferito riepilogando gli assunti delle parti — sul punto assolutamente concordi - in ordine al funzionamento del software Autocomplete, le parole generate automaticamente nella stringa di ricerca allorquando si digitano (anche solo in parte) il nome e cognome del ricorrente altro non sono se non quelle statisticamente più digitate sul motore di ricerca GOOGLE dalla comunità degli utenti. Il funzionamento del software, peraltro, è compiutamente e chiaramente spiegato su una pagina Web predisposta dalla resistente e liberamente accessibile (v. doc. 1 di parte resistente, non contestato), sicchè è immediatamente chiaro — quanto meno per un utente INTERNET informato — quale sia il significato da attribuirsi all'accostamento in questione, significato che, reputa il Tribunale, esclude qualsivoglia accezione diffamatoria. Ed invero, la descritta situazione altro non significa se non che un certo numero di utenti ha in tempi recenti interrogato il motore di ricerca per sapere se 111~ fosse (o fosse stato) indagato oppure arrestato. Il riferimento, in termini di mera ricerca di informazioni, all'eventuale coinvolgimento di una persona in indagini penali, tuttavia, non è di per sè diffamatorio. Come si ricava da un'analisi della giurisprudenza formatasi in materia — ad es. dalla lettura delle due uniche sentenze penali citate in ricorso a sostegno della domanda — il reato di diffamazione in relazione alla diffusione di notizie concernenti il coinvolgimento di taluno in procedimenti penali è stato ritenuto quando si trattava di affermazioni, di  Le_gola circostanziatei_plitaileal vero e relative all'attribuzione della  qualifica di indagato o di destinatario di atti processuali penali concernenti  fatti di reato in concreto idonei ad infangare la reputazione della persona. Nulla del genere si è nel caso di specie verificato poiche';

le parole in questione non sono per loro natura epiteti offensivi sicchè la loro associazione al nome di una persona non vale, per ciò solo, a lederne la reputazione (diverso, dunque, il caso esaminato dall'ord. Trib. Milano 1.4.2011, invocata come precedente in ricorso, nel quale tra i termini associati al nome della persona vi era anche quello di "truffatore");

la mera associazione dei termini in una stringa di ricerca non è un'affermazione, dovendo piuttosto essere paragonata — tenendo conto delle finalità della funzione - ad una domanda;

la domanda se taluno sia (o sia stato) indagato o arrestato non e', di per se', lesiva della reputazione, potendo assumere detti connotati soltanto se, non essendo fondata su fatti veri, trattisi di una domanda retorica (id est, che presuppone una risposta affermativa, quindi paragonabile ad una asserzione), oppure quando essa sia maliziosamente posta da chi sappia che la risposta sia negativa e voglia tuttavia insinuare che il soggetto in questione sia implicato in fatti di rilevanza penale;

il contesto in cui rassociazione di termini in questione appare sulla stringa di ricerca di GOOGLE esclude in radice che si tratti di una domanda retorica e ragionevolmente esclude — peraltro in assenza di qualsivoglia ulteriore chiosa - che essa possa apparire il frutto di uha maliziosa insinuazione nel senso riferito;

- del resto, anche per gli utenti INTERNET meno informati non v'è possibilità di cadere in equivoco, posto che l'esito delle ricerche che siano effettuate con la combinazione dei termini in esame per mezzo dello stesso motore di ricerca porta chiaramente — ed immediatamente - ad escludere che MIMI risulti essere stato indagato o arrestato (circostanza, questa, pacifica in causa).

La situazione delineata, dunque, esclude che sia ravvisabile il reato di diffamazione già sul piano oggettivo, senza necessità di dover dunque esaminare il profilo soggettivo, che, trattandosi di delitto punito esclusivamente a titolo di dolo, con riguardo agli utenti che abbiano digitato nelle loro ricerche su GOOGLE le parole in questione richiederebbe peraltro la prova che costoro abbiano voluto ledere la reputazione di ~MI circostanza, questa, di cui in ricorso non solo non si fornisce alcun elemento dimostrativo anche solo indiziario, ma che non viene allegata neppure come semplice possibilita'.

Nè si giunge a diversa conclusione se si esamina la situazione nella prospettiva della società resistente, ponendo l'accento sulla oggettiva risonanza che — mercè il software in parola — viene data alla tipologia di ricerca che risulta statisticamente effettuata dalla comunità dei fruitori del servizio. Ed invero, ancora una volta, non può dirsi di per sè diffamatorio rendere noto (ciò che oggettivamente avviene nel caso di specie e che GOOGLE ben sa quanto meno dal momento in cui ha ricevuto la diffida) che un certo numero di fruitori di Internet si interroghi sul fatto se il ricorrente sia o meno stato coinvolto in vicende penali e voglia verificare se nel Web vi siano informazioni al proposito. Da questo punto di vista, invero, il fatto può paragonarsi ad una mera diffusione — senza secondi o maliziosi fini - di una notizia avente il menzionato contenuto, ciò che non vale certo nè ad attribuire alla circostanza oggetto di ricerca sul Web una qualche patente di veridicità o di verosimiglianza, nè - tenendo sempre conto della natura del servizio offerto e della connessa possibilità di verificare immediatamente come l'interrogativo debba avere risposta negativa per l'assenza di qualsivoglia fondamento — ad accreditare l'idea che la società che gestisce il motore di ricerca reputi la domanda non peregrina e suscettibile di essere coltivata. Come ben argomentato in comparsa di costituzione e risposta, la società resistente si limita a svolgere con neutralità un mero servizio di che, ad avviso del Tribunale, rientra nella disciplina di cui agli artt. 14 ss. digs. 70/2003 — in particolare di quella di hosting delineata nell'art. 16 d.lgs. 70/2003 - anche in relazione alla memorizzazione dei termini di ricerca utilizzati dai destinatari del servizio ed alla loro riproposizione per agevolare le ricerche di altri destinatari con il sistema Autocomplete. In tal caso — come si ricava dall'art. 16, 1° comma, digs. 70/2003 — l'I.S.P. non è responsabile a meno che l'informazione ospitata sia illecita ed il prestatore sia consapevole di tale illiceita'. In sostanza, il presupposto della responsabilità del prestatore torna a fondarsi sull'analisi della eventuale illiceità — nel caso di specie ricondotta esclusivamente al reato di diffamazione — della informazione ospitata e la condotta dell'I.S.P. può essere paragonata alla quella di diffusione di notizie da parte di un mezzo di comunicazione di massa. L'analisi della giurisprudenza formatasi sul punto, tuttavia, mostra come l'affermazione della responsabilità penale per lesione della reputazione di chi "amplifichi" una informazione proveniente da terzi soggiace agli stessi limiti più sopra citati, sicchè non possono certamente essere diffuse informazioni contenenti espressioni/giudizi/valutazioni di per sè lesive dell'altrui reputazione («in materia di diffamazione a mezzo della stampa, la pubblicazione anche fedele delle dichiarazioni di terzi, lesive dell'altrui reputazione, costituisce veicolo tipico di diffusione delle stesse. giornalista, pertanto, partecipa alla diffamazione con il proprio contributo causale e ne risponde secondo lo schema del concorso di persone nel reato, ove il fatto non sia giustificato dallo "ius narrandi" collegato al limite della verità della notizia, che egli ha il dovere di controllare, per evitare che la stampa diventi "cassa di risonanza" delle contumelie e delle malevoli critiche di terzi»: Cass. Pen., Sez. 5, sent. 5313 del 08/04/1999-26/04/1999); per contro, quando si tratti di una informazione relativa a situazioni o fatti di per sè non lesivi dell'onore anche se sgraditi a taluno, si esclude la responsabilità di chi si limiti a darne notizia: «in tema di diffamazione a mezzo stampa, qualora la notizia pubblicata sia costituita da una denuncia di reato presentata da un cittadino, il giornalista va esente da pena nel caso in cui, nel rispetto della verità e della continenza, si limiti a riferire tale fatto, ponendosi, rispetto ad esso quale semplice testimone, animato da "dolus bonus" e da "ius narrandi". Non cosi', in caso di uso strumentale del fatto, ancora "sub iudice", se il giornalista, attraverso arbitrarie integrazioni, aggiunte, commenti, insinuazioni, fotografie corredate da didascalie, fa apparire come vera o verosimile la "notitia criminis"'' (Cass. Peri., Sez. 5, sent. n. 12028 del 12/05/1999- 21/10/1999).

Difettando, dunque, il fondamentale requisito del fumus boni iuris di una eventuale azione di responsabilità nei confronti della resistente fondata sulla sussistenza di un reato di diffamazione, la domanda cautelare non può trovare accoglimento.

Alla soccombenza segue l'obbligo di rimborsare alla resistente le spese legali, liquidate — in difetto di notula e enendo anche conto dei maggiori costi sostenuti a causa della lontananza tra la sede legale della società e il Tribunale adito — in complessivi Euro 1912,50, oltre IVA e CPA.

P.Q.M.

Respinge la domanda azionata in ricorso.

Dichiara tenuto e condanna il ricorrente a rimborsare alla società resistente le spese del procedimento, liquidate in complessivi Euro 1.912,50 oltre IVA e CPA.

Manda alla Cancelleria per la comunicazione alle parti della presente ordinanza.

Così deciso in Pinerolo, il 30 Aprile 2012.

IL GIUDICE DESIGNATO ianni Rey ud) Depositato il 2.5.2012 Oggi
IL CANCELLIERE

15.05.2012 Spataro
Quintarelli


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